Ritorna al sommario


Micronesia: Yap e Palau

racconto di viaggio a puntate che appare anche sulle pagine della rivista Illustrazione ticinese di Roberto S.

Se non avete ancora letto le puntate precedenti cliccate qui.

Introduzione
: L’arcipelago di Palau è noto agli appassionati di immersioni ed ai fotografi famosi per le incredibili ricchezze delle sue lagune e per la bellezza mozzafiato di quello scherzo della natura che sono le Rock islands: una miriade di isolette che sbucano come funghi da un mare turchese. Ai lettori più anziani, i nomi di queste isole ricorderanno invece sanguinosi e decisivi scontri di una seconda guerra mondiale forse dimenticata. Per quanto mi concerne, Palau riserverà però molte altre sorprese e la scoperta di una popolazione e di una cultura sospesa tra guerra e pace ...

Un'accoglienza ... di peso

E’ notte fonda ma il caldo è ancora opprimente. Passato il severo controllo passaporti dell’aeroporto Airai di Palau mi accoglie Russel, un omone di 130 chilogrammi, con due forti gambe che un poco allargate ne portano il peso e due braccia da malfidarsi anche di una semplice pacca sulla spalla. Prende al volo il mio pesante zaino, con una mano, come fosse una borsetta e lo carica con attenzione sulla camionetta. Pare sinceramente contento di vedermi e non credo solo perché ho riservato una camera nella sua pensione, la meno cara dell'isola, dove mi aspetto di incontrare altri viaggiatori che possano darmi preziosi suggerimenti su come meglio scoprire gli ultimi segreti del luogo. Russel non pare nemmeno troppo contrariato dal fatto di essere dovuto venirmi incontro all'aeroporto nel mezzo della notte. Tutto è estremamente tranquillo lungo il percorso in direzione di Koror, la capitale Palau, tragitto durante il quale Russel mi spiega un poco di tutto, dalle differenti direzioni che prendono le biforcazioni, alle problematiche delle industrie manifatturiere che costeggiano la strada, a dove abita chi o si mangia o compera cosa. Pare esserci proprio di tutto a Palau, anche se la sua capitale mi si presenta assolutamente morta, quasi spettrale. "E' per il coprifuoco", mi dice, che proibisce di uscire di casa dopo le due di notte, una precauzione per calmare un poco le teste calde locali, anche se sinceramente nel corso dei giorni successivi non avrò assolutamente modo di notare alcunché di agitato o pericoloso.

Chi cammina uno straniero è!

Per gli abitanti di Palau la vita sembra proprio non costituire un gran problema. Mamma America ha messo una grande mano su queste isole, una mano amichevole e generosa di dollari ... dopo avere riconosciuto l'importanza strategica che rivestono questi piccoli lembi di terra. Palau fruisce così di un cospicuo aiuto allo sviluppo sotto forma di finanziamenti esteri per infrastrutture, formazione e realizzazione di strade. Questi fondi hanno un poco creato un'economia parallela della quale tutti si nutrono. Ed il nutrimento non manca di certo! Oltre all'alimentazione locale già molto ricca, vi sono ogni genere di ristoranti occidentali ed orientali, dai giapponesi alle pizzerie, dai fast food agli ambulanti con specialità isolane. Le conseguenze sono visibili alla prima passeggiata per le vie di Koror: grandi sederi, faccione belle tonde e sovrappeso. A tutto ciò va aggiunta una mancanza totale di movimento. Se chiedi dove sia l’ufficio postale, non ti viene detto a trecento metri, bensì a un dollaro e cinquanta col taxi, perché qui nessuno si sognerebbe mai di percorrere più di un centinaio di metri a piedi, incredibile ma vero! Le auto sono praticamente tutte d'occasione e di marca nipponica, al contrario del Giappone qui si circola però a destra, di conseguenza i volanti sono dal lato sbagliato. Altra curiosità: le targhe. Molto belle con fantasiosi disegni tradizionali, poche cifre e ... fissate solo posteriormente. Rimanendo in tema di strade, vi sono due categorie di persone che si incontrano a più di cinquanta metri da un posteggio: i lavoratori filippini - troppo poveri per possedere un auto - ed i turisti, ma sono pochi! Il lavoro pare essere un altro punto dolente o forse sarebbe più giusto parlare al contrario di "fortunato". Infatti su di una popolazione di circa 15'000 palauensi, ve ne sono quasi altri diecimila filippini, manodopera a basso costo che si sobbarca tutti i lavori di fatica, dalla costruzione di strade ai servizi nei ristoranti a quelli di casa. Con 100 dollari al mese ci si può permettere un, o una, tuttofare a disposizione in casa ventiquattro ore su ventiquattro!

Mi imbarco, si ma per dove?

Camminare in effetti, lo ammetto, è faticoso, non perché vi siano molte salite, ma perché il caldo può veramente essere atroce, in particolare modo subito dopo uno dei frequenti acquazzoni, quando i tassi di umidità dell’aria superano comodamente il 90%. Ne vale però la pena, non fosse altro per scoprire gli angoli più genuini dei dintorni di Koror. Quando la morfologia della costa e la sua rigogliosa vegetazione ti permette di scrutare oltre la laguna dagli incantevoli colori turchesi, ti si presenta la vista mozzafiato delle Rock Islands, la miriade di isole che sorgono come funghi in un mare terso e che hanno reso celebri Palau e forse l'intera Micronesia ben oltre le consuete cerchie di appassionati di immersioni subacquee. Decido però di non dedicarmi ai fondali marini, non per differenziarmi dal novantanove virgola nove percento degli altri visitatori, ma semplicemente per il fatto che il brevetto di sub non l'ho mai fatto e che qui ogni cosa costa molto cara, corsi di immersione compresi. La vera ragione è però il mio desiderio di capire come si vive al di fuori della capitale, proprio su quelle isole che più sono state segnate dalla guerra e che ora credo abbiano ritrovato il torpore dei tempi addietro. Al porto, situato oltre un lungo ponte sull'isola adiacente di Malakal, ho incontrato marinai e capitani delle imbarcazioni che salpano per le tranquille acque della laguna, le informazioni non paiono essere sempre chiare ed attendibili. La mia scelta sulla destinazione avviene quindi in base a criteri tutt’altro che razionali, turistici o culturali: prenderò semplicemente la prima imbarcazione che salperà il giorno nel quale deciderò di recarmi nuovamente al porto. Oddio, a dir la verità le possibilità non sono infinite, finirò a Angaur, a Kyangel, a Babeldaob o a Peleliu. Vedremo.


1. Yap, yap ... e se ne andarono"

Nei remoti mari della Micronesia, all’estremità nord occidentale dell’Oceano Pacifico, un piccolo stato dal curioso nome di Yap difende e coltiva ancora le sue tradizioni millenarie. Alcune centinaia di miglia marine più ad est si trova M.*, un’isola governata da un vecchio ormai invalido e dai capelli ingialliti: il suo nome è Antonio, Chief Antonio. A lui spetta l’ultima parola, l’ultimo definitivo ed agognato consenso. Un lungo viaggio effettuato con mezzi di trasporto precari mi aveva portato in quel luogo, ma il raggiungimento della meta era dipeso soprattutto da incontri con personaggi chiave della complessa struttura amministrativa. Un potere locale condizionato dalle decisioni di consigli dei capi delle isole e dei loro rappresentanti, ma pure da una società assoggettata ad uno strano sistema di caste tradizionali, di regole non scritte, di riti e credenze, di magie ancora praticate o per lo meno ancora vive nei sentimenti delle genti locali.

Forse poco è cambiato da quando questi splendidi lembi di terra vennero casualmente scoperti da avventurieri occidentali. Si narra che quando nel corso del sedicesimo secolo i primi navigatori portoghesi avvistarono queste isole, vennero loro incontro degli uomini nudi su piccole canoe. Alla domanda sul nome del luogo dove erano giunti, gli indigeni voltarono loro le spalle dicendo "yap, yap", che nel linguaggio locale significava qualche cosa come remiamo, ritorniamocene al villaggio. Da quel malinteso nacque così la denominazione di Yap, che col tempo fu destinata ad apparire su tutte le mappe di navigazione ufficiali, rinnegando il vero nome "Wa'ab" ad unico utilizzo locale.

Ghirlande di fiori e seni nudi

Yap oggi è considerato uno degli stati più tradizionali dell'intero Oceano Pacifico. E’ abitato da poco più di undicimila indigeni che, malgrado una forte dipendenza economica dagli Stati Uniti, difendono a denti stretti la loro orgogliosa cultura. Non sorprende così che nelle sedute parlamentari vengano ancora avanzate delle serie e concrete proposte che invitano a proibire l’uso degli abbigliamenti occidentali anche sull'isola principale di Yap Proper, un'imposizione che, come narrerò in seguito, è presa molto seriamente in quasi tutte le altre isole dell'arcipelago. Intanto però nella sonnolenta Yap atterrano oggi i Jet della linea aerea americana Air Continental, pochi è vero, a volte due, spesso solo uno la settimana e quasi sempre nel bel mezzo della notte. Al piccolo e tradizionale aeroporto il traffico risulta così molto ridotto e le infrastrutture tra le palme appaiono desolatamente vuote per la maggior parte del tempo. Appena atterrati, scendendo la scaletta dell’aviogetto, si percepisce immediatamente la sensazione di esser giunti in un mondo diverso. L’aria è calda ed umida, mentre decine di persone curiosano al di là delle rete di cinta della pista di atterraggio. Le donne sono tutte vestite col "sulu" - una gonna tradizionale - e gli uomini col "thu" - un tessuto annodato attorno alla vita ed avvolto tra le gambe in modo piuttosto complesso -. Pochi i visitatori: sub alla ricerca di contatti ravvicinati con squali e mante, o locali emigrati al ritorno in patria. Le formalità doganali sono più che altro un cordiale benvenuto e poi, stanchi ed un poco appannati dal lungo viaggio, ci si trova davanti, sorpresi e compiaciuti, una graziosa giovane coi seni nudi e le spalle coperte di fiori profumati che ti pone una splendida ghirlanda in testa o al collo. A tutti! Perché non si tratta di un atto di compiacenza turistica, ma di un semplice e consueto gesto di benvenuto tradizionale, come avrò modo di capire nei giorni successivi.

Ciao Joe, amico mio

Lo intravedo in controluce sulla porta in fondo alla scura sala al piano terra della pensione dove alloggio. Joe è un omone con una pancia da donna incinta, sotto la quale un poco disordinatamente è legato il suo "thu", rigorosamente bianco, che lascia generosamente intravedere cosce, natiche ed una strana cicatrice sul fianco. Mi viene incontro scalzo, con gioia, come fossimo amici da sempre ... e forse è anche vero, malgrado sia la prima volta che ci incontriamo. E' un rapporto di fiducia nato in mesi di pazienti contatti da un continente all'altro, iniziato grazie ad un'amica di un amico, come spesso avviene in questi luoghi, dove tutto è difficile, complesso e quasi impossibile, sino a quando non si ha la fortuna di guadagnarsi la fiducia di una persona. Joe non è uno qualsiasi, è il rappresentante - una sorta di segretario operativo - del consiglio dei capi delle "outer islands", le isole esterne, quelle più lontane dall’isola principale. Il consiglio dei capi - council of Tamol - , per quanto mi concerne, è l’autorità tradizionale dalla quale dipende il mio permesso di poter visitare e soggiornare in una delle isole ancor più remote, se mai possibile, di quella sulla quale sono atterrato. Un intento che può essere, ed è, dannatamente complesso. Principalmente perché i visitatori sono, salvo rari casi, tenuti a distanza per evitare di "contaminare" la cultura locale, ed è quindi necessario fare opera di convincimento e soprattutto presentare credenziali, leggi conoscenza della cultura, esperienze simili vissute in passato ed appunto amicizie sul luogo, tali da convincere di essere persona idonea. E poi, ottenuto il permesso, è necessario soprattutto riuscire ad organizzare il trasporto.

Peter, il mito dei cieli

Quando si parla di trasporto il discorso è semplice, le alternative sono due: una vecchia imbarcazione cargo che rifornisce a scadenze bimensili, quando va bene, le isole più distanti o ... Peter ed il suo collega Daniel della PMA. PMA sta per Pacific Missionary Aviation, un'organizzazione umanitaria forse poco nota, che però fornisce un importantissimo servizio di trasporto, di aiuto e di assistenza con piccoli aerei, che spesso paiono appartenere a film del passato eroico dell'aviazione. Le storie, vere o fantasiose, su questi piloti si sprecano: imprese mitiche trasportando malati o medicamenti, o fornendo soccorsi dopo tempeste. Racconti di voli a rischio, di atterraggi di fortuna ed anche di ammaraggi disperati. Peter, germanico, da 37 anni pilota per vocazione, è ormai assunto al ruolo di mito ed è supportato ora nel suo sforzo da un altro giovane pilota ... svizzero. Le sorprese non finiscono proprio mai in questi luoghi! Grazie a loro potrò fare così un grande ed apparentemente facile balzo tra le nuvole e sopra i mari che da lassù appaiono così pacifici. Un’immensità blu, dove a tratti compaiono piccole ed idilliache lingue di terra disabitate, contornate da sabbie bianche che paiono manciate di talco e da lagune incredibilmente turchesi. La realtà si rivelerà però un poco diversa, non solo perché le acque ed i venti dell’oceano non saranno sempre così clementi, ma anche perché l’avere in mano quello strano permesso di accesso al mondo delle isole lontane e l’essermi accordato con la PMA per il trasporto, non significa ancora avere messo piede sulla "mia" isola.

2. Il sole? Quando le nuvole se ne vanno

Mi preoccupa il tempo ventoso, spesso umido e coperto. Secondo le mie informazioni dovrebbe essere la bella stagione. A queste latitudini, in mezzo al Pacifico, non significa che non piove mai, ma da quando sono giunto a Yap non ho quasi mai visto il sole! Cerco un poco di conforto presso Joe, non è il medesimo Joe del consiglio delle isole, bensì il proprietario del piccolo motel dove alloggio. Un arzillo ed arguto vecchietto dal passato illustre - ha ricoperto la carica di governatore regionale - e appartenente anche ad una delle caste più nobili di Yap. Di statura minuta, veste il tradizionale "thu" legato attorno alla vita e da quando l’ho conosciuto porta attorno al collo la medesima ghirlanda di fiori, ormai ora desolatamente appassiti. Oggi mi appare un poco trascurato. Lo incontro mentre mangia in piedi nella cucina, locale che invero doveva essere sino a poco tempo fa adibito ad officina. Infatti il tavolo è costituito da un asse da lavoro, mentre sulle pareti, insieme a casseruole annerite e vecchi mestoli, vi sono appesi ancora martelli e cacciavite. Nel grosso pentolone cuoce della tapioca - il tradizionale tubero locale - , del riso - eredità del periodo di colonizzazione giapponese - ed alcune verdure. Mi offre delle banane fritte, che passione (!), ed alla mia preoccupata domanda su come evolverà il tempo nei prossimi giorni, dopo aver ben ponderato la sua risposta, con tono serio e voce saggia sentenzia: "Sì, il sole arriverà ... quando le nuvole se ne andranno". Devo arrendermi all'evidenza, si tratta della previsione meteo più logica, chiara ed attendibile che abbia mai potuto sentire!

Volo no, volo sì, che sofferenza

Joe aveva proprio ragione: il sole torna proprio quando le nuvole se ne sono andate! Ciò avviene fortunatamente il giorno nel quale era prevista la mia partenza col piccolo aviogetto dell’organizzazione assistenziale PMA verso un remoto atollo più a ovest. Ma anche quel giorno avrei dovuto soffrire. L'appuntamento era infatti per le sette del mattino all'aeroporto. Avevo però avuto un cattivo presentimento sentendo al mio risveglio alle prime luci del giorno un vago rumore proveniente da lontano, come un ronzio sordo che ricordava l'elica di un vecchio aeroplano. Chiedo quindi a Joe di telefonare all'aeroporto per sincerarsi che tutto fosse in ordine, non avevo infatti nessuna conferma particolare né un biglietto di volo ... tutto era stato organizzato sulla parola, ma da ciò dipendeva la realizzazione del mio grande sogno. Joe appende il ricevitore e come nulla fosse mi dice "l'aereo è già partito". Mi sento cadere il mondo addosso. Ma come, ho attraversato mezzo mondo, sono arrivato in questo angolo remoto, sono riuscito a fronte di un’intensa e forse fortunata serie di circostanze ad ottenere un permesso per visitare l'isola M*., mi promettono un passaggio su di un volo per l'atollo desiderato ed oltretutto oggi non piove e poi ... l'aereo parte senza di me! Vistomi così demoralizzato Joe chiama nuovamente l'aeroporto ed in seguito con altrettanta calma mi dice che è tutto a posto, perché oggi ci sono due voli a causa di un'emergenza. Alla prima domanda posta all’addetto della MPA, si era infatti effettivamente sentito dire che l’aeroplano era già partito, ma dato "l'intenso traffico" la voce al telefono aveva omesso in un primo tempo di dire, beninteso senza malafede, che era previsto eccezionalmente un secondo volo.

Strano ma vero!

Pur arrivando puntuale alle sette del mattino all’aeroporto, passeranno però ancora alcune ore prima di riuscire effettivamente a lasciare l'isola di Yap Proper. Il motivo? Mancano due passeggeri, su tre, ed il terzo sono io. Qui significa che si aspetta sino a quando tutti saranno presenti, tradotto concretamente in tempo di attesa: tre ore. Poco importa, perché questi sono i ritmi tanto affascinanti di questi luoghi, dove il tempo non è mai perso ma sempre regalato. Che dire quindi del limite massimo di velocità per le auto, che sono pochissime, di 15 miglia all'ora (meno di 25 km l'ora)? Una regola rispettata scrupolosamente, così come i segnali di stop, anche nel bel mezzo della notte, dove non vi è anima viva in giro. Mi è capitato poi di trovarmi sul bordo della strada ad un incrocio - per carità non pensate subito ad uno degli incroci delle nostre città - intento a mettere a fuoco l'obiettivo della mia macchina fotografica per un bello scatto e rendermi conto che tre macchine si erano bloccate a causa mia sulle rispettive carreggiate ... non volevano rovinarmi la fotografia col loro passaggio! Questo è il ritmo e la cortesia di Colonia, la piccola capitale, dove ognuno ti saluta e dove non è raro veder scendere da una vecchia limousine americana una signora a seno nudo oppure incrociare giovani con ghirlande di fiori sul capo o attorno al collo.

Arrivo annunciato via radio

Con l'emozione del volo su di un piccolo velivolo diretto verso gli atolli più remoti di Yap, inizia un'esperienza di viaggio che saprà lasciare dei ricordi indelebili nel tempo. Per il momento ammiro quel infinito mare da lontano, a tratti scorgo piccoli lembi di terra persi nell'immensità di acque turchesi. Daniel, il pilota, mi indica la meta oltre le nuvole: una pista d'atterraggio che s'incunea tra le palme e divide in due l'isola. Non si tratta ancora dell’isola di M*, ma è il luogo più vicino all’atollo dove sono diretto ove vi sia un’opportunità di atterraggio. Sino a quando potrò finalmente attraversare il grande specchio d'acqua della laguna passerà però ancora molto tempo. Il mio arrivo viene infatti annunciato via radio, un messaggio che rimbalza di isola in isola con la speranza che venga ascoltato dalle orecchie giuste. Dopo l’atterraggio raggiungo a piedi la spiaggia poco distante. Scruto per ore pazientemente il mare attendendo una fantomatica barca, laggiù in fondo, dove le acque si confondono con l'orizzonte dovrebbe esserci la "mia" isola. Sono quindi ancora a diversi chilometri di navigazione, i primi molto temuti di mare aperto, in un canale che mi appare molto mosso e ventoso. "Mi chiamo Juanito", mi dice e mi aiuta a caricare lo zaino sulla piccola barca che quasi dal nulla era apparsa poco prima tra le alte onde. Appena partito cala un lungo filo nel mare al quale è attaccato un amo nascosto da piume di uccello. Lo tiene stretto tra le dita dei piedi mentre con una mano manovra sapientemente il timone ed il piccolo motore fuoribordo e con l’altra controlla il tubo del carburante. Con assoluta indifferenza lascia che la barca sobbalzi tra le onde sempre più impetuose, mi guarda negli occhi e sorride, "laggiù", mi dice, "c'è l'isola di M*". Tra violenti spruzzi d’acqua salmastra ed onde vedo solo a tratti la costa appena lasciata, mentre più avanti noto le acque stranamente terse e tranquille di una immensa laguna; lì, oltre la barriera corallina, inizia il grande atollo che con trepidazione attendo ora di raggiungere.

3. Finalmente l'isola di M*.

Immaginate un meraviglioso giardino botanico con fiori colorati e piante tropicali rigogliose, bei viali ombreggiati, pulito e tranquillo, ma nel contempo pure curiosamente molto disordinato. Questa è l'atmosfera che si vive nell'unico villaggio dell'isola di M*. Le casupole sono disperse qua e là sotto le piante, alcune sono tipiche costruzioni in legno e fibre naturali, altre in vecchie lamiere arrugginite, poche in muratura solida. Molto umile ed in stile prettamente tradizionale è la capanna di Chief Antony, il capo del villaggio, che dopo la mia breve presentazione e la conseguente richiesta formale di poter rimanere sull'isola, mi accoglie con simpatia. Invero nel corso dell’incontro non si è mai rivolto a me direttamente, bensì mi ha parlato per tramite di Juanito, il mio "padrino" locale, un poco l’uomo del destino per me, un personaggio al quale avrò modo di affezionarmi nei giorni successivi e con cui instaurerò un legame d'amicizia fatto di piccoli gesti e grandi valori. Chief Antony, mi dice Juanito, mi accorda il permesso di rimanere nel villaggio e mi elenca le regole che dovrò rispettare. Innanzitutto verrò assegnato a lui "ad interim", fino a quando non vi sarà altra famiglia che reclamerà il diritto di ospitarmi. Juanito sarà responsabile del mio benessere. Dovrò - o potrò? - quindi dormire nella tradizionale "mens house", la casa degli uomini, non avrò però il diritto di fotografare la mia dimora notturna a meno di una richiesta esplicita al capo del villaggio. Al contrario di tutti gli altri abitanti del villaggio mi viene concesso di vestire abiti occidentali e non il consueto "thu" degli uomini - un tessuto prevalentemente di colore blu allacciato intorno alla vita dopo un avvolgimento non facile tra natiche e cavallo. Le donne invece vestono il corrispondente "lavalava", la gonna locale, prevalentemente di colore blu e cerchiata di rosso o giallo, occasionalmente capita ancora di vederne in fibre di cocco. Mi viene inoltre esplicitamente detto che non sarebbe di buon gusto portare un cappello all'interno del villaggio. Mi riprometto comunque di rimanere il più possibile anch’io a torso nudo, come qui è obbligo sia per gli uomini che per le donne, e questo a costo di una lotta con sole e zanzare che si preannuncia già sin d’ora molto difficile.

Dove il seno coperto è tabù

Confesso che per un viaggiatore occidentale, non certo di abitudini benedettine, risulta a volte difficile rimanere indifferente al cospetto dei seni scoperti che dalla mattina alla sera le avvenenti, e non, micronesiane sfoggiano con assoluta naturalezza. Eppure ciò non ha nulla a che vedere con un affronto al pudore o con l'ostentazione di una provocazione sessuale, si tratta semplicemente di un segnale molto forte per il rispetto di un'orgogliosa tradizione che sembra per il momento essere passata indenne attraverso tutti i contatti avuti col mondo esterno. Non si deve infatti pensare che questi atolli, che possono apparire persi nell’immensità dell’oceano e che hanno conservato tradizioni secolari, non abbiamo avuto contatti con altre culture. Si tratta infatti di straordinari marinai che dai tempi più remoti hanno solcato questi mari, intrecciando commerci e conoscendo popolazioni di isole e stati lontani giorni di navigazione. Rappresentanti dei diversi clan di questi luoghi si possono quindi ancora trovare in terre molto lontane e diverse. Ognuno di loro al ritorno in "patria" si assoggetterà subito a "tabù" e tradizioni locali, la prima delle quali impone di scoprire, in segno di rispetto, la parte superiore del corpo a non più di 100 piedi di distanza dalla costa e questo vale sia per gli uomini che per le donne!

Quando il dormire è cultura

La civiltà occidentale stringe però d'assedio questo piccolo mondo fatto forse di illusioni e di orgoglio. In modo subdolo e strisciante un’altra cultura si sta incuneando nelle abitudini di queste genti. L'arrivo dei primi motori sulle barche è parso come un progresso, significava la possibilità di poter andare più lontano che non con le tradizionali canoe a vela o a pagaia e soprattutto più rapidamente, fatto questo molto importante in un mare mutevole che spesso e volentieri sorprende pericolosamente con le sue bizze. Molte canoe sono cadute così in disuso, fino a quando ci si è resi conto che senza benzina i motori non funzionano e che la benzina, oltre che a costare, giunge solo ad intervalli molto irregolari su di un battello cargo che sempre più raramente solca questi mari, ironia della sorte ... a causa dei costi elevati del carburante. Neppure le lamiere ondulate con le quali vengono sostituiti i tradizionali tetti di foglie e a volte anche le pareti delle capanne, sono da considerarsi un effettivo progresso. Le abitazioni così costruite diventano infatti durante il giorno caldissime e quasi invivibili. Chief Antonio mi diceva inoltre che le lamiere sono pericolosissime allorquando sopraggiungono gli uragani che, sollevandole e scagliandole lontano, le trasformano in oggetti contundenti mortali. Quello che però non è ancora stato assolutamente scalfito da qualsivoglia influsso esterno è il ritmo di vita. Uno splendido soporifero, noioso, lentissimo scandire di ore e giorni che si traduce concretamente in un festival fantasioso di posizioni e di luoghi per il riposo il mattino, pomeriggio e naturalmente la notte. Quando non c'è niente da fare, cioè spesso, o quando la pancia è piena, anche questo spesso, quando fa troppo caldo per muoversi, sempre, cosa vi è di meglio che sdraiarsi nel luogo ombreggiato più vicino e dormire, incuranti di tutto quello che sta attorno, perché qui il dormire di giorno non è un'onta, è cultura maledettamente presa sul serio!

Scende la sera ecco il faluba

Juanito è veramente felice: tiene con soddisfazione in mano la grossa bottiglia di faluba, come qui chiamano il liquore di cocco. Ogni sera ci ritroviamo sulla panca di legno davanti alla capanna per l’appuntamento con l’ormai tradizionale "bevuta". Davanti a noi un bottiglione di circa un litro e mezzo riempito con un liquido alcolico biancastro, due o tre bicchieri sono riservati per me, il resto è tutto per il mio amico! Ma il rituale affascina entrambi, è un modo per rinsaldare la nostra intesa e la nostra amicizia. Non ci ubriachiamo, ma ci manca sempre poco. Lui dice che non stiamo male perché mischia i fermentati giovani con quelli più vecchi ed io gli devo credere. Il faluba è ottenuto tagliando il cespite sul quale crescono le noci di cocco, raccogliendone quindi pazientemente il liquido che ne fuoriesce e lasciandolo fermentare direttamente sull'albero. I produttori locali sono molti, tutti giovani che agilmente si arrampicano fin sulle cime delle piante di cocco per sapientemente predisporre i vasi raccoglitori. Quanto importante sia il cocco per la sopravvivenza di queste popolazioni è solamente difficilmente immaginabile, ma la realtà è che senza le piante di cocco nemmeno questi incredibili specialisti della sopravvivenza, che in passato hanno solcato mari ed oceano, mai sarebbero riusciti a colonizzare queste isole perse nell'infinito tra acqua e cieli non sempre clementi. Dal tronco della pianta di cocco si ricavano canoe, ma pure strutture portanti per le capanne, le foglie vengono utilizzate per costruire i tetti o, dopo essere state essiccate, per intrecciare stuoie, cesti e borse. Dai frutti si ricavano contenitori ma pure olio, latte e succo; una polpa nutriente e copra. Le fini fibre del guscio servono quindi per intrecciare corde resistentissime. Ciò che rimane non viene di certo gettato, bensì utilizzato quale combustibile per i fuochi o nutrimento per gli animali domestici. Una grande lezione per la nostra "civiltà" dei consumi e degli sprechi!

4. Ma tu credi ai fantasmi?

Cala la notte. Le palme si trasformano in sagome scure, mentre occasionali barlumi di luce sfuggono dalle capanne. Prendo quindi la via della men's house, la casa degli uomini, il luogo tabù per le donne, dove la notte sdraiati sul pavimento si ritrovano a dormire giovani del villaggio, occasionali visitatori come il sottoscritto, oppure semplicemente coloro che non hanno voglia di coricarsi tra le proprie mura - mura intese come lamiere, stuoie e solo in rari casi costruzioni solide. Il cielo oggi è stellato e ritrovo il fascino di una magica atmosfera a pochi passi dal mare con le onde sospinte dalla marea che sembrano quasi voler entrare dai molti accessi della tradizionale struttura architettonica che contraddistingue la casa degli uomini. La costruzione, posta direttamente sulla spiaggia, è di forma ovale, le sue aperture permettono la vista in ogni direzione e, durante le ore di siesta del pomeriggio, divengono per me pertugi privilegiati per curiosare nella vita del villaggio e scoprirne i piccoli segreti. Nel buio Gidion mi chiede all'improvviso se credo anch'io ai fantasmi. In un primo momento fatico a rispondere, rimango non poco perplesso da quella domanda tanto repentina e diretta quanto inattesa, ma poi il discorso fila via di confidenza in confidenza ed il suo cuore mi si apre rivelandomi problemi affettivi, conflitti di religione ma pure l'angoscia per il suicidio di due amici avvenuto solo pochi mesi prima. Due giovani del villaggio che si sono impiccati, un atto per il quale non esiste nemmeno una definizione nella lingua locale, un sintomo terribile di un cambiamento e di equilibri millenari che paiono ora destinati a spezzarsi. Nessuno sa cosa sia successo veramente, li hanno trovati così, penzolanti e privi di vita al ritorno dalla messa.

Yip, yip ... svegliati

Il primo sole del mattino inonda la men's house, mentre io indugio avvolto nel mio lenzuolo, un poco abbagliato dalla luce e forse pure ancora intorpidito dalla consueta bevuta di falupa della sera precedente. Poco distante, anch’egli sdraiato su di un asse di legno, uno dei giovani che condividono l'ampio spazio dell'abitazione tradizionale maschile che si affaccia sul mare, non pare avere nessuna intenzione di destarsi. La madre lo chiama "Yip, yip, svegliati", ma lui si volta dall’altra parte, incurante della sollecitazione. Osservo la scena divertito e con curiosità attendo di vedere come la madre potrà risolvere il problema, pur divenendo sempre più adirata, non può infatti entrare nella capanna, perché è zona tabù per le donne. Lei però non si da per vinta, cerca un lungo bastone di bambù ed attraverso una delle porte comincia a punzecchiare sempre più vigorosamente il malcapitato, che per finire dovrà arrendersi. Fortunatamente vengo risparmiato da simile sorte ed ho tutto il tempo di recuperare con qualche esercizio ginnico la funzionalità dei miei arti, le cui ossa paiono fin troppo bene essersi adattate al duro asse sul quale si sono coricate per la notte. In mattinata, ma solo dopo aver gustato il buon caffè in polvere di Juanito, mi attende la consueta passeggiata attorno all’isola. Nel corso del mio girovagare scopro sempre nuovi, inattesi angoli e curiosità: da piante e frutti, fino a curiosi uccelli che mi spiano discretamente dal folto della boscaglia. Si tratta di una disordinata esplorazione che mi porta spesso sulla spiaggetta deserta più lontana, quella che volge a est, dove siedo all’ombra di grandi alberi di pandano ad ammirare il mare che con vigore infrange le sue onde contro la barriera corallina. A ovest invece la costa è più tranquilla, la spiaggia di coralli e conchiglie è più ampia, luogo ideale per concedersi un bagno rinfrescante. Incontro occasionalmente ragazzini che giocano facendosi trascinare dalla corrente, molto pericolosa quando la marea sale, ma che loro hanno imparato a conoscere e mai correranno il pericolo di venire trascinati verso il largo o contro gli scogli.

Lezioni di sopravvivenza

Il mattino ragazze e giovani donne, sole o a piccoli gruppi, giungono nella casa della famiglia che mi ospita, alcune di esse sono sorprese ed un poco imbarazzate per la mia presenza, altre appaiono indifferenti, pochine invero sono quelle che mostrano un implicito compiacimento per l’inconsueto spettatore. Sedute sulle stuoie ascoltano attentamente le parole della moglie di Juanito, una delle anziane del villaggio responsabile delle lezioni di cultura locale. Ho così modo di scoprire i segreti della lavorazione di fibre naturali quali foglie di cocco, di banano o di pandano, che abilmente e pazientemente intrecciate divengono abiti, cestini o stuoie. Poche decine di metri più lontano, sotto una tettoia di paglia, i giovani apprendono la preparazione di corde e lacci. Da fibre di cocco pazientemente strappate, poi sempre più affinate fino a quando risultano pronte per il sapiente intreccio ed arrotolamento, vengono ricavate resistentissime corde, utilizzate per fissare le strutture delle capanne o delle barche. Una incredibile cultura si perpetua così di generazione in generazione e tradizioni in perfetta sintonia con l'ambiente, passano da millenni di padre in figlio e da madre in figlia.
Ma mentre altre giovani donne vocianti gioiosamente e spensieratamente si divertono saltando alla corda, chief Antony mi confida la sua tristezza per una orgogliosa cultura e per delle conoscenze che teme si possano presto perdere. Sino a pochi anni or sono vi era ancora chi si recava a Yap Proper in canoa: un giorno in mare aperto sfruttando venti e correnti, lasciandosi guidare dalle stelle e dai colori delle acque. "La nostra è la cultura della sopravvivenza", mi dice l'amico Juanito, " dobbiamo tutti imparare a vivere con quello che ci offre la natura, i nostri giovani devono essere forti, saper trovare il cibo, raccogliere l'acqua piovana ed arrampicarsi sulle piante di cocco, costruire capanne per proteggersi, leggere le stelle e riconoscere i pericoli del mare".

5.Non so più contare

Finalmente ho capito! I miei stoici tentativi di abbozzare alcune frasi del linguaggio locale si perdevano spesso in sguardi certo benevoli, ma decisamente sorpresi e soprattutto che parevano faticare non poco nel comprendere le mie difficoltà. Ora mi rendo conto che sono malamente caduto sul sistema numerico. Io, che dopotutto non ho mai avuto troppe difficoltà con la matematica e nel contare. Che dire però di una lingua che usa differenti definizioni di numero a dipendenza del soggetto di riferimento? Mi spiego: se il sasso è "uno", per la banana sarà un'altra parola che indica l'unità, così come per gli esseri umani e via di seguito fino agli animali. Per ogni persona sull’isola di M*. tutto ciò appare assolutamente scontato: chi oserebbe asserire che "una" banana è uguale ad "un" sasso? Probabilmente solo quello strano viaggiatore appena giunto nel villaggio. La mia ignoranza continuerà purtroppo a sorprendere ancora anche nei giorni successivi, tanto che a turno potrò, e dovrò, generosamente beneficiare di aiuti quasi sempre forniti da ... bambini (!) - a tale livello corrisponde dunque in questo luogo il mio grado di formazione-. Infatti le cognizioni necessarie al fine di risolvere grandi e piccoli problemi esistenziali in Micronesia sono ben diverse da quelle che si apprendono in Europa. E sì, perché quando ti dicono che se fai il bagno devi "solo" fare attenzione agli squali scuri e tu non sei bene in chiaro su dove finisca il colore chiaro e dove inizi quello scuro, la questione può divenire maledettamente seria! Il processo di apprendimento ed adattamento col tempo darà qualche risultato, tanto che in seguito potrò girovagare solo per tutta l'isola e diverrò valido ed interessante interlocutore per diverse appassionate discussioni ... da quelle con l'amico Stanley, a quelle col vecchio capo del villaggio, col quale mi sarà finalmente concesso di conversare senza un intermediario, come avvenne il giorno del mio arrivo. Mai potrò però percorrere di sera senza la scorta di Juanito i cinquanta metri che mi separano dalla casa che mi ospita alla men's house dove dormo e la ragione non l'ho proprio mai capita davvero!

Il leasing? ... E' nato a M*.

Ma lo sapete che a M*., un'isola di circa 600 metri di lunghezza e 200 di larghezza, abitata da non più di duecento anime, vi è una seria suddivisione tra est ed ovest? Vi sono due clan, uno dei quali dominante, che ha il diritto di prendere le decisioni più importanti, oltre che a designare il capo. Anche questo, come tutti gli altri aspetti culturali, è cosa estremamente seria e soprattutto complessa. Pensate solo al fatto che inevitabilmente le singole famiglie spesso sono il risultato di matrimoni misti tra persone originarie dell'est e dell'ovest, di conseguenza i diritti ereditari di proprietà e di usufrutto di cose e terreni si intrecciano. Ecco quindi che spessissimo accade che su di un terreno di proprietà di una persona vi siano delle piante di proprietà di un'altra. Come poi non bastasse, vi sono pure diritti di utilizzo e di gestione: nel giardino di una famiglia si trovano così delle piante da cocco che appartengono ad un’altra, il cui diritto di coltivazione e beneficio del raccolto è dato però in concessioni al proprietario del terreno in base ad accordi di clan. Insomma qui il concetto di leasing è molto, ma molto più anziano che non da noi! Vi è però una grossa differenza: sull'isola di M*. pare funzionare tutto perfettamente, non vi sono debitori né creditori e tutti sono contenti di come la comunità gestisce i pochi e poveri averi che la natura mette lei a disposizione. Le betel nuts, le verdi noci da masticare che ho portato al capo, e quindi poi anche a Juanito, entrano così subito nel circuito dei beni della comunità. Alla chetichella, uno dopo l'altro, discretamente, forse quasi timidamente si fanno avanti fratelli, cugini, zii, le loro mogli e figlie, reclamandone una quota ... ed in pochi giorni le riserve si esauriscono. Mi rendo presto conto che la penuria di questa leggera droga, essenziale per la vita tradizionale di questi luoghi e che la mancanza di acqua non permette di coltivare sull’isola, costituisce un problema terribilmente serio che mi riprometto di tentare di risolvere quando ritornerò sull'isola principale di Yap Proper.

La stagione sempre meno ... secca

Ma in vista del momento della mia dipartita dall'isola di M*. si addensano nubi sempre più scure e purtroppo non solo in senso figurato. Dovrebbe essere la stagione secca, che poi secca non lo è veramente, ma che però mai in passato aveva portato così tanta acqua come quest'anno. Purtroppo anche qui, in questo luogo dove è così facile cadere nell'illusione di vivere in un mondo diverso, i cambiamenti climatici causati dalla nostra cultura così "avanzata" paiono segnare delle mutazioni che potrebbero portare a delle conseguenze ben più drammatiche che non altrove. Basti pensare che il punto più alto dell'isola di M*. non supera i due o tre metri al di sopra del livello del mare e che l’innalzamento delle acque è costante ed inesorabile. Ma qui nessuno si scompone più di quel tanto per gli acquazzoni sempre più frequenti, anzi sono occasione propizia per incrementare le riserve nei vari raccoglitori - vasche naturali e vecchi container -, tanto essenziali su di un lembo di terra dove per dissetarsi l'unica alternativa all'acqua piovana è il succo delle noci di cocco. Alcune giovani donne civettuole e seminude mi passano accanto ridendo ed insaponate da capo a piedi, si godono una doccia naturale che il cielo le invia. Poco dopo, sotto la tettoia davanti alla capanna dell'amico Stanley, dove mi sono rifugiato per l'occasione, giunge il figlio Ping, che aveva approfittato della pioggia per andare a pesca di polipi. Uno dei quali ai miei occhi appare decisamente di discrete dimensioni, ma sparisce ben presto nelle mani di non so bene quale altro membro del clan che presumibilmente vantava dei diritti sugli stessi. Altri due più piccoli trovano fortunatamente la strada della cucina nella quale siede la moglie di Stanley. Naturalmente vengo invitato a pranzo che, data l’ora, potrebbe pure essere una merenda, o magari si rivelerà una cena! infatti in Micronesia il tempo di cottura - come d’altronde tutto il concetto di tempo in generale - è molto elastico e tra il momento dell'invito e l'arrivo del piatto con i gustosi polipi fritti trascorreranno effettivamente più di tre ore ...

6. Le lacrime si perdono nella pioggia

Davanti a me un cielo scuro, nubi dense ed un orizzonte che non c'è più, come fosse stato inghiottito da un mare che ha perso il suo bel colore turchese. Mentre la piccola barca ondeggia e si allontana dalla riva, nel mio cuore vi è un poco di sconforto. Guardo laggiù sulla spiaggia quelle mani levate per un ultimo saluto, sempre più lontane. Forse solo ora mi rendo conto di quanti amici abbia lasciato sull’isola di M*. In me è ancora fresca l’emozione per gli occhi lucidi dell'anziana moglie di Juanito che, con affetto, sotto la pioggia mi aveva accompagnato fino alla spiaggia, come fossi un figlio. Le sue discrete lacrime si sono confuse con le gocce di pioggia che le lavavano il viso e scivolavano giù giù fin su quei suoi grossi seni cadenti sul ventre. Intanto la pioggia si fa fitta, violenta ed avvolge tutto quello che ci circonda. I nostri corpi seminudi vengono colpiti da gocce che paiono piccoli aghi, pungenti e dolorosi. La temperatura cala rapidamente. Ho freddo e non riesco a trattenere il tremore, ma lì, in mezzo a quel mare, non vi è riparo, non vi è in effetti più niente. Tutto è sparito, ogni punto di riferimento, ogni lembo di terra, solo acqua. Juanito al timone guarda lontano, come se riuscisse a vedere oltre le nubi, come se la pioggia non lo toccasse nemmeno. Eppure è fradicio, i sui capelli grigi e crespi paiono ora lisci, mi guarda e non dice niente, ma il suo sguardo è tranquillo, quello che per me è l'ignoto, per lui è il mondo dei suoi padri, le acque che le sue genti hanno solcato per secoli e che hanno imparato a conoscere, ma pure a rispettare a prezzo di vite umane.

Ma che aereo è questo?

Dopo un viaggio così temerario, per ironia della sorte, come raggiungiamo nuovamente la terra ferma riappare il sole. Di lì a poco si ode in lontananza il sordo ronzio di un’elica. E' Peter, nessuno lo vede, ma tutti lo sanno. Solo lui potrebbe presentarsi così, con quel suo strano e rumoroso aviogetto, un’elica posta davanti ed un'altra di dietro, sbucando basso dal mare ed infilando il canalone tra le palme ondeggiando le ali e con un volo radente passare davanti a noi per poi risollevarsi e solo dopo questo saluto ed una stretta virata, finalmente, atterrare. Sono contento di rivederlo, credo che lui guardandomi capisca che in quell'atollo ho lasciato una parte del mio cuore e questo lo avvicina ancora di più a me. I profumi delle molte ghirlande di fiori ricevute ci accompagneranno anche nel ristretto abitacolo dello strano aviogetto, affollato all’inverosimile di mercanzie di ogni genere. Sorvolando per un ultimo saluto la "mia" isola, rivedendo i pochi tetti in lamiera, le spiagge, i viali e le piste tra la folta vegetazione ormai tanto familiari, racconterò a Peter della mancanza di riserve di betel nuts sull’isola di M*, trovando in lui un alleato prezioso per far pervenire nei giorni successivi un grosso pacco che possa soddisfare le necessità degli indigeni. Ma Peter non sarà l’unico aiuto, molte altre conoscenze, che ritrovo al ritorno a Yap Proper, che ben comprendono il dramma di un micronesiano che non possa più masticare la sua betel nuts, mi consiglieranno sul come e dove reperire i migliori frutti. Questa usanza, che rende gli indigeni dipendenti da questa strana noce, è tanto forte che mi viene addirittura sconsigliato di affidarne il trasporto a persone locali. Non resisterebbero mai alla tentazione di masticarle loro stessi. Peter pare quindi proprio essere la persona giusta per prendere in consegna il prezioso carico.

La bistecca è buona, e basta!

Sulla carta del menu del ristorante cinese vi è scritto "beef steak" (bistecca), ma considerato il genere di locale e soprattutto le caratteristiche culinarie non certo familiari, mi permetto di chiedere cosa intendano esattamente con beef steak e come sia il piatto di carne. Due occhi a mandorla mi fissano stupiti e quindi mi viene risposto: "buono". Insisto, gentilmente dico che intendevo come è cucinata la carne: con tono spazientito ma addolcito da un classico sorriso asiatico mi viene ribattuto: "bene!". Mi rassegno al fatto e confermo l'ordinazione. Sono così ritornato al torpore ed alle stranezze di Yap e della sua capitale Colonia, dove ho rivedo con piacere molti volti noti. Ritrovo pure la mia pensioncina, dove nessuno si era preoccupato del fatto che, nella fretta della partenza, mi fossi portato appresso la chiave della camera. L’avevo però lasciata all’inserviente dell'aeroporto, con la preghiera di ritornarla al proprietario. La chiave doveva essere ancora lì, la camera infatti era rimasta tutto il tempo chiusa, così come l'avevo lasciata io. Bevendo un caffè nel piccolo disimpegno anticente le poche camere, noto per la prima volta l'ora del "check out", le camere devono essere liberate entro le 11.30 ... di sera! La riflessione non certo nuova sul concetto di tempo locale è inevitabile, così come un confronto col genere di servizio alberghiero in altri luoghi che tradizionalmente dovrebbero essere ben più orientati alle necessità del cliente.

Magie, tabù e segreti

Ma prima di lasciare Yap ne dovrò ancora scoprire le magie, la cultura dei clan e le sempre radicate credenze religiose ancestrali, alle quali il cristianesimo, imposto dai missionari, ha solo potuto sovrapporsi, ma non prenderne il posto veramente. In un piccolo villaggio sulla costa ovest, incontro James nei pressi di una "meeting house", la capanna tradizionale dove si ritrovano per le riunioni ufficiali gli indigeni. Quel suo viso rotondo, i capelli crespi e lunghi, la sua bocca resa rossa dal succo di betel nuts, ma soprattutto il suo atteggiamento aperto e forse un poco matto, ne fanno subito ai miei occhi un personaggio degno di essere scoperto. Mi ritrovo così in compagnia di un isolano che mi dice di aver studiato in Russia ... ed io gli credo. Ma non è una persona qualunque, mi dice infatti di essere uno dei discendenti della casta dominante del luogo e, in quanto tale, mi mostra con orgoglio, ma senza alcuna boria, tutti i dintorni che gli appartengono, persone incluse. Gli incontri con gli indigeni di caste inferiori mi confermeranno questo strano rapporto di sudditanza ancora vivo ai giorni nostri. Mi trovo così immerso in un mondo di clan dominanti e dominati, di storie di un passato violento, di guerre e rivoluzioni, di sotterfugi e magie. Quest'ultime, mi dice, sono l'arma delle caste più umili, le quali hanno sviluppato conoscenze di veleni e riti segreti ancora oggi praticati. I segni li ritrovo in profonde e strane cicatrici sui corpi di alcuni uomini - come se la pelle fosse stata staccata e poi ricucita creando strani disegni - . Scopro orti dove vengono quasi segretamente coltivate erbe molto particolari, luoghi e tabù che ancora oggi sono profondamente rispettati. Pochi sono però oggi gli anziani delle caste dominanti che si rivolgono ancora ad un "medico" di bassa casta per richiedergli il veleno che li porti in cielo. Un estratto che li fa soffrire, perché è solo con la sofferenza che si può andare verso l'alto. Storie? Verità? Passato e presente, fantasia e realtà, ma Yap è appunto questo, un mondo diverso, nelle sue genti e nella sua cultura, ma pure nella sua bellezza.

7. Perché il pavimento è rosso?

Sono le due della notte e l'aviogetto della Continental Airlines decolla puntuale, lasciando sotto di se le poche luci del piccolo aeroporto di Yap, che ben presto si addormenterà sino la prossimo appuntamento con l'attuale unico volo settimanale. Per alcune ore è però oggi divenuto il luogo d'incontro di gran lunga più animato di tutta l'isola. Gli indigeni vi si riuniscono indipendentemente dalla partenza o meno di un parente, anche se per finire, bene o male, tutti si conoscono o hanno per lo meno lontani legami familiari o di clan. La serata "mondana" è così occasione di incontri e conversazioni, curiosando distrattamente di tanto in tanto oltre le entrate della piccola e pittoresca sala di partenza e naturalmente ... masticando in continuazione betel nuts. Un fatto questo che è stato ampiamente considerato dai progettisti del nuovo aeroporto, basti pensare che il pavimento della sala di attesa, che in affetti è una balconata aperta sul palmeto antistante i posteggi, è stato pitturato di un inusuale rosso vivo. Il motivo? Semplice, in questo modo gli sputi rossi, ultimo atto del "rito masticatorio", si confondono col terreno, evitando di dare una comprensibile sensazione sgradevole a nuovi visitatori non ancora abituati a questa usanza. Oltre alle onnipresenti borsette personali, contenenti il necessario per "masticare", ogni indigeno porta appresso ghirlande di fiori profumati quale segno di saluto per le persone che lasciano l'isola, ma pure di quelle che vi giungono, un doveroso pegno alla cultura, alla natura ed alla infinita bellezza di questi luoghi.

A Yap il sistema bancario più sicuro

Il giovane che mi siede accanto si sta recando ad un incontro studentesco previsto a Palau, l'isola che sarà pure la mia meta. Come molti passeggeri porta diverse corone di fiori al collo che profumano intensamente l'intero aviogetto. Lo spio mentre maneggia col laccio di una ghirlanda che è in procinto di slegare con delicatezza, poi, come fosse la cosa più normale di questo mondo, si volta dalla mia parte e con un sorriso me la mette al collo quello splendido intreccio floreale. La cordialità di Yap continua quindi a seguirmi anche nei suoi cieli. Sotto di noi il buio ed il mare: sono 500 chilometri di acque spesso imprevedibili, che ci separano dalla prossima meta. Tra quelle onde navigarono negli anni addietro gli impavidi indigeni di Yap, intenti in imprese marittime che la loro tradizione richiedeva e che non di rado costavano il sacrificio di vite umane. A Palau infatti venivano scolpite le "stone money", pesanti e giganteschi cerchi di pietra, bucati nel mezzo per renderne possibile il trasporto. Più grandi le pietre, ma soprattutto più vite umane venivano sacrificate nell'incredibile trasporto di giorni su semplici piroghe, quanto maggiore il loro valore. Yap creò così secoli addietro un sistema monetario che ha resistito negli anni e soprattutto che si è rivelato tra i più sicuri al mondo. Infatti una volta posate le pesanti pietre circolari davanti alla casa del proprietario, risultava praticamente impossibile rimuoverle. Decine di esse giacciono quindi sempre lì, dove furono posate originariamente ed ancora oggi sono sinonimo di ricchezza e prestigio. Il passaggio di proprietà avviene in occasione di matrimoni o eredità, ma raramente le pietre vengono spostate, un semplice sistema d'informazione fa in modo che tutti sappiano a chi appartengono le "monete". Il sistema bancario di Yap risulta quindi essere di una sicurezza a prova di bomba.

Sentieri di magia e mistero

Le bombe, quelle vere, anche se fortunatamente arrugginite, ma ancora oggi pericolose, le troverò però ben presto a Palau. Un arcipelago oggi stato indipendente, che ancora porta i segni di alcune tra le battaglie più terribili e sanguinose che hanno avuto luogo nell'Oceano Pacifico nel corso della seconda guerra mondiale, quando gli eserciti giapponese ed americano elessero sciaguratamente a terreno di confronto uno dei luoghi più incontaminati e paradisiaci della terra. La bellezza dei suoi paesaggi, delle sue isole e soprattutto della sua rigogliosa natura sono riusciti con gli anni, se non a cancellare, per lo meno a nascondere i segni di tanta follia umana, ma l'incamminarsi sulle piste delle foreste può portare ancora a fare macabri incontri, se non addirittura ad esporti al rischio di mettere il piede su di una vecchia mina rimasta inesplosa. I ricordi vanno inevitabilmente ancora ai tranquilli "stone path" di Yap. Ombreggiati e freschi sentieri secolari di pietra, che formano un'intricata ragnatela congiungendo ogni luogo dell'isola e lungo i quali, per uno straniero, è però più facile perdersi che non trovare la giusta via. Paiono piste turistiche che però quasi nessun visitatore percorre. Pur incuneandosi in una foresta rigogliosa ed esuberante, i sentieri rimangono sempre puliti. Sono spesso costeggiati da siepi di fiori, da piante ornamentali e a tratti lasciano intravedere piccoli campi coltivati a taro - il tubero locale - o discrete ed umili casupole tra le palme, nelle quali gli indigeni conducono una vita pacifica ed assonnata lontano da tutto e tutti. Le piste sono state percorse per secoli dagli abitanti di Yap, che ancora oggi le rispettano e curano quale patrimonio della loro cultura. Una cultura nella quale l'estetica e la sintonia con la natura regna ovunque, dove le strade dei villaggi sono tappeti verdi e morbidi, dove le case divengono luogo di esposizione di fiori e dove tutto pare confondersi tra verdi dalle tonalità sempre differenti. Yap rimane fortunatamente ancora un luogo di fiori, tradizioni e ... magia!