inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati
inviateci le vostre
vi siamo grati |
Ritorna
al sommario principale
Forse il destino voleva che divenissi testimone e narratore di luoghi, persone ed in
parte anche culture che oggi non esistono più, o che per lo meno risultano così
drammaticamente modificate da non essere più comparabili a ciò che ancora ho avuto la
fortuna di vivere. Questi ricordi li dedico dunque con piacere a tutte quelle persone che
mi hanno aiutato nel corso del viaggio e che con la loro simpatia, il loro entusiasmo, la
loro gioia di vivere mi hanno preso per mano e fatto conoscere due magnifici paesi: il
Nicaragua e lHonduras. La prima di queste persone fu forse Lindford, statunitense,
emigrato in Belize da molti anni, commerciante di praticamente tutto ciò che si possa
acquistare e vendere.Lo incontrai una domenica mattina, poco dopo le sei, usciva nudo
dalla sua stanza con solo un asciugamano umido attorno alla vita. Il viso segnato dalla
stanchezza, anche lui trasudato e con in mano due bottiglie di birra locale. Senza esitare
me ne offrì una, come se avesse già saputo di incontrarmi prima di aprire quella porta
fatiscente. Io me ne stavo li, a dondolarmi un poco annoiato da una decina di minuti,
seduto su di una delle sedie a dondolo del patio di quella pensione invero decadente. Le
porte sulla strada erano state sprangate con grosse inferiate e catenacci. Un intenso
odore di fritto impregnava ancora laria dalla sera precedente. a notte era stata un
disastro: un caldo opprimente, senza un filo daria. Il ventilatore attaccato al
soffitto dello stanzino nel quale ero alloggiato, oltre che a ballonzolare pericolosamente
ed a fare un gran rumore, non aveva molto migliorato la situazione. Anzi, quel suo
oscillare così preoccupante aveva contribuito ad annebbiare ancor più la mia mente, già
stanca per il lungo viaggio. Nel corso della notte era poi venuta a mancare anche la
corrente e con ciò quel pur esile filo daria dal soffitto, come pure quella luce
fioca e tremante della lampadina appesa sopra il letto con lo stesso cavo elettrico che la
nutriva. Così, in malo modo, era iniziata la mia avventura in Nicaragua, prima tappa del
viaggio, dove ero giunto proprio la sera precedente. Roberto gli aveva sparato a Lindford Lindford non sta più ne da una parte ne dallaltra, tanto che il suo partner in
affari, Roberto, è un Hondureño che nel corso della rivoluzione gli aveva sparato
addosso, essendosi arruolato tra le fila dei sandinisti. Mentre discutevo con loro avevo
limpressione di rivivere un vecchio film in bianco e nero degli anni cinquanta, poco
o nulla era sicuramente cambiato nel corso degli ultimi decenni in quei luoghi. I dintorni
di Masaya li conobbi aggregandomi ai miei due nuovi amici, simpatici, sicuramente un poco
matti, che mi condussero con loro il giorno seguente ad un appuntamento daffari.
Incontrai così una comunità dedita allartigianato del legno. I loro prodotti e la
loro abilità manuale si rivelano di qualità stupefacente, ma mancano loro sbocchi verso
mercati stranieri ove poter vendere i manufatti. Ecco appunto laffare che Lindford e
Roberto avevano in corso. Le trattative nella "finca" (fattoria) potrebbero
essere comparate ad una grande festa locale, tutti si divertono, si mangia, si balla, poi
ad un certo punto si siedono attorno ad un tavolo posto sotto una tettoia di rami di
palma, per discutere seriamente del progetto. Ma è troppo tardi: Lindford non ce la fa
più, è malato. La sua malattia sono la birra ed il rum, le sue medicine ... la birra ed
il rum. Roberto, il suo socio, è molto seccato, Lindford ha perso sia la faccia che
laffare, ha però forse trovato una donna ... Lo lasciamo così in quel luogo e ci
incamminiamo sulla strada alla ricerca di un raro mezzo di trasporto domenicale che, manco
a dirlo, rimarrà inesorabilmente in panne dopo pochi chilometri. Il vulcano Masaya purtroppo si rivela essere ben poca cosa, alcuni sbuffi fumogeni ed
un gigantesco cono immerso in una perenne foschia che impedisce di ammirare i paesaggi
sottostanti. Anche quel fenomeno della natura, che sino a poche settimane prima mi dissero
ancora roboante e spettacolare, pareva essersi assopito, come spento anche lui da quel
clima opprimente. I giorni trascorsi in compagnia di Lindford e Roberto nella regione,
hanno contribuito a rinfrancare il mio spagnolo e ad assuefarmi ai ritmi di vita ed alle
abitudini locali. Il tassista che mi porta alla stazione dei bus (da leggere: luogo
caotico, sudicio e dove si respira a pieni polmoni gas di scarico) è innamorato di Sofia
Loren. Per tutto il tragitto mi fa partecipe del suo fermento per le gambe, i fianchi e
altri requisiti dellattrice italiana che mi descrive con dovizia di particolari. Il
fatto che la mia parlata spagnola abbia un accento italiano, pare aver fatto scattare in
lui una simpatia particolare nei mie confronti oltre a tanti ricordi reconditi che non
esita a confidarmi. Con "Titanic" a Tegucigalpa Le ultime illusioni di trovare sullaltipiano un poco di sollievo dal caldo torrido svaniscono all'entrata di Tegucigalpa, dove un cartello luminoso posto sopra una pompa di benzina, segnala 37 gradi centigradi ... ed il sole è già calato. Oltre al viaggio di una giornata, si conclude pure il film trasmesso dal video di bordo il cui volume mia aveva letteralmente frastornato: Titanic, una strana coincidenza! Rimane quindi la calura anche dopo le dieci ore di viaggio e malgrado laltura di Tegus (come qui viene chiamata la capitale). Sono però riuscito a scrollarmi di dosso le nuvole scure e la foschia di Managua e della aride coste dell'Oceano Pacifico, sempre in attesa della stagione delle piogge che questanno pare essersi dimenticata della scadenza. A Tegucigalpa mi trovo subito a mio agio, la città è ricca ancora di vestigia ispaniche molto caratteristiche: chiese, balconate in legno, stucchi ben conservati. Le strade del centro pullulano di persone e folcloristici venditori ambulanti, negozietti di ogni genere e tanta musica. La gente è estremamente cordiale, un connubio molto genuino di cultura india e spagnola ... salvo l'alimentazione. Per strano che possa essere nel centro della capitale dell'Honduras è molto difficile trovare un ristorante dove vengono serviti piatti locali. Lo strapotere dei "fast food" americani è incredibile. Mentre gironzolo in città e nei suoi dintorni, i miei pensieri vanno però sempre più spesso alla prossima meta, come se il viaggio vero e proprio debba cominciare solo al momento nel quale avrò attraversato da ovest ad est l'America centrale, per raggiungere le coste caraibiche dellAtlantico. Da li intendo risalire le vie fluviali e scoprire una delle zone più selvagge del Centroamerica: la Moskitia. La Moskitia? Fai attenzione! Le poche notizie su questa regione che apprendo dai giornali non sono un gran che: una sommossa dei contadini locali nei confronti dei loro latifondisti a Trujillo e presunti traffici di droga più a sud. Le persone locali che incontro non mi aiutano molto, alcuni dicono che è una regione bellissima, altri molto pericolosa ed abitata da popolazioni indio primitive, altri ancora inventano le storie più stravaganti o non si esprimono. Con questi interrogativi ed alla ricerca di informazioni più rassicuranti raggiungo quindi alcuni giorni dopo finalmente l'Oceano Atlantico, dopo essere ridisceso dallaltopiano ed aver scoperto molti aspetti delle variegate caratteristiche paesaggistiche dell'Honduras. Da palme e banani che si confondono tra pinete, a foreste tropicali lussureggianti, quindi pianure aride e laghi, fino a raggiungere il mare. Tela, piccola cittadina caratteristica costiera, culla della vivace cultura garifuna - i discendenti diretti degli schiavi africani - , è situata ai margini di infinite piantagioni di banane e di palme da cocco e si affaccia su di uno splendido mare. Nemmeno là troverò però molte risposte ai miei quesiti e ancora meno informazioni rassicuranti sulla Moskitia. Al contrario il soggiorno si rivelerà certamente divertente ma alquanto travagliato e non privo di preoccupazioni ed imprevisti. 3. Tela: spari e musica Sento improvvisamente degli spari, sono molto vicini, provengono dalla spiaggia. Una
piccola pausa, un grande silenzio e poi ancora altri spari, grida e colpi di mitraglietta.
Mi precipito all'interruttore della luce, rimango così al buio e cerco di sincerarmi
della situazione sbirciando tra le grate della finestra. Tela è una cittadina simpatica,
palpitante, sicura di giorno, ma un poco "far west" di notte. La mattina Jorge,
uno dei due "vigilantes" (guardiani) della pensione dove alloggio, ridendo mi
dice "ningun problema" - nessun problema -. Non è successo niente, forse una
festa. Non si è nemmeno accorto degli spari, anche se il tutto deve essere accaduto a non
più di trenta metri da li. Me lo dice con estrema serietà e con tono rassicurante, per
lui tutto è tranquillo ... Intanto se ne sta li ogni notte seduto sui gradini della porta
d'entrata con una coperta addosso ed in mano un lungo machete. Non so quali siano le
garanzie di sicurezza che possa dare il suo "armamento", in una località dove
ogni sorta di arma è alquanto comune. Si vedono giovani in bicicletta con mal celate
pistole sotto le magliette, clienti nei ristoranti che prima di sedersi pongono la propria
pistola sul tavolo, incuranti dei tanto consueti cartelli affissi alle entrate dei luoghi
pubblici con scritto "no armas". Non fa eccezione a questa consuetudine Luciano,
che mi mostra oltre al machete sul bancone del bar, anche un pistolone, pronto colpo in
canna nel cassetto. "Sei italiano", mi aveva domandato poche ore prima con un accento che
lasciava intuire la sua poca affinità con la Lega Nord di Bossi, incrociandomi per strada
a cavallo della sua mountain bike. Luciano vive qui con una ragazza del luogo, si è
lasciato dietro di se un'Italia per lui troppo regolata da leggi, da prescrizioni di
comportamento e forse ipocrita. A Tela infatti la vita pare essere certamente più libera
ed individualista, il prezzo da pagare per quanto concerne la sicurezza è però alto.
Luciano si affeziona a quello svizzero che ragiona un poco come lui, che gli porta aria di
casa laggiù e che parla la sua lingua, anche se per finire tra di noi finiamo sempre per
conversare ancora in spagnolo. Sono infatti ambienti e culture che ti prendono e che ti
penetrano nella pelle. Gli odori tropicali, le musiche onnipresenti ed i suoni della
natura, appena ci si allontana dalle case. Sensazioni diverse che scopriamo assieme
gironzolando nei villaggi dell'entroterra, dove vivono in casupole di legno ed argilla i
"mistizios". Sono comunità miste indio-ispaniche quasi dimenticate dal mondo,
perse in una folta e generosa vegetazione tropicale dove scorrono rinfrescanti corsi
dacqua. Sulle coste incontriamo gli allegri "garifuna", discendenti degli
schiavi africani che furono portati in queste regioni per lavorare nelle piantagioni.
Lontani dalle città ed in un paese quale l'Honduras, ancora un poco ai margini del mondo,
hanno conservato molti aspetti originali della loro cultura. Una lingua africana, culti e
tradizioni antiche ancora praticate, alle quali spesso si sovrappongono forzati elementi
ispanici e cristiani e per terminare: la musica. La punta: la melodia tradizionale, dai
suoni affascinanti, ritmi che vengono da lontano, forse ancora più lontano dell'Africa.
Gli strumenti ancora utilizzati oggigiorno sono incredibili: conchiglie, gusci di
tartarughe e curiosi strumenti a percussione. Il vecchio "garifuna" invalido, la pelle nerissima ed i capelli bianchi, oggi
non cera. Trascorreva le sue giornate sdraiato di traverso sul marciapiede ed ogni
mattino dovevo scavalcarlo per raggiungere la suggestiva piazzetta centrale, dove i
giornalai vendono i quotidiani locali. Non eravamo amici. Era di pochissime parole, ci
sorridevamo, lo salutavo e forse lui mi era riconoscente per questo: perché mi accorgevo
che ogni giorno lui era lì, che esisteva nellindifferenza di tutti. Mi è
dispiaciuto molto che non fosse al suo posto proprio quando sono partito. Fedele davanti
alla televisione era invece, come sempre, la "duena", la proprietaria della
pensione che nei giorni trascorsi a Tela mi si era un poco affezionata. Tanto che per
congedarsi ed augurarmi buona fortuna si era addirittura scomodata dalla poltrona posta
perennemente davanti allo schermo televisivo. Da quel luogo dirigeva la pensione, ma pure
era lì dove si faceva portare i pasti ed era ancora a quel medesimo posto quando
sonnecchiava nel pomeriggio ... la televisione rimaneva sempre accesa.Luciano -
litaliano conosciuto a Tela - e la sua amica mi hanno accompagnato fino alla
stazione di partenza dello sgangherato bus, col quale mi appresto ad affrontare la prima
tappa in direzione della Moskitia. Forse non ci vedremo più. Se quello che troverò alla
Moskitia costituisce tutta un'incognita, la tremenda certezza è invece rappresentata
dalla fornace dall'abitacolo del bus. Il mio viso è grondante di sudore, i miei abiti
sono fradici come se mi fossi appena gettato vestito nel mare. Non resta che lasciarsi
incantare dagli stupendi paesaggi che scorrono accanto alla sconnessa carreggiata che
percorriamo. La vegetazione è lussureggiante, verdissima. Casupole d'argilla con tetti di
foglie costeggiano la strada che porta verso al città. La piccola Cecilia mi mostra un gattino spelacchiato, poi arriva la cuginetta con un
vasetto di noci indigene tostate ed ora giunge pure la mamma con due maranan cotte, un
frutto rossastro terribilmente dolce. Sul prato pascolano due cavalli in compagnia di
altrettante mucche, invero un poco magroline. Gli unici rumori sono le onde del mare, il
fruscio delle foglie al vento ed i canti degli uccelli. Di questo luogo ne ignoravo
l'esistenza, non era segnalato su nessuna cartina. E' una piccolissima comunità di
indiani miskitos, situata su di una striscia di terra di poco più di un centinaio di
metri sulla quale da un lato si infrangono con fragore le onde dell'Oceano Atlantico e
dall'altro è lambita dalle tranquille acque di una laguna immensa. Tuttintorno una
grande pace. Gli spari di Tela, i vigilantes, le insicurezze appartengono a ricordi che
paiono essere molto lontani. Qui inizia la Moskitia, quella regione che mi era stata
sconsigliata, isolata dal mondo ed abitata da popolazioni poco ospitali ...Vi sono giunto
per caso, è il men che si possa dire. Prendendo d'intuito quell'unica piccola
imbarcazione, chiamata "tuctuc", in partenza a poche decine di metri dal luogo
dell'atterraggio del piccolo bimotore che mi aveva portato ai margini di una delle regioni
più isolate del Centroamerica. Attraversata una tranquilla laguna la barca è penetrata a
fatica in stretti canali, profondi solo poche decine di centimetri, che si insinuavano in
una folta vegetazione. Per lunghi tratti è stato necessario avanzare a colpi di pagaia,
sintravedevano fugacemente uccelli colorati e splendidi fiori, mentre i forti raggi
del sole raramente facevano capolino tra le foglie. Inizia la grande avventura Il ramo principale del fiume lo raggiungiamo addentrandoci in strettissimi canali di una boscaglia paludosa. Il letto del fiume si insinua quindi con un tracciato tormentato tra una vegetazione lussureggiate. Ammiro con rispetto piante gigantesche e bambù di oltre venti metri, dimensioni che mai avevo visto in passato. Sugli argini del fiume, solo alcuni metri sopra il livello delle acque, a tratti compaiono le casupole di meticci che a fatica colonizzano la regione. Gente poverissima che tenta di conquistarsi un lembo di terra nella foresta tropicale, si accontentano di pochi metri quadrati da coltivare che garantiscano loro e alla loro famiglia sempre numerosa la sopravvivenza. Condizioni di vita che ho avuto modo di meglio conoscere nel corso delle brevi soste nei momenti più caldi della giornata. Le capanne sono costituite da alcuni pali conficcati nel terreno, un tetto di foglie, nel migliore dei casi delle pareti di argilla, il tipico forno bianco miskito dalle forme arrotondate e poche vettovaglie. Eppure sono stato accolto ovunque con gioia e simpatia, da sorrisi e sincere strette di mano. Immersi sino alle cosce nel fiume Il viaggio è affascinante, si ha la sensazione di entrare in un altro mondo. Vi è una luminosità diffusa, il sole è come filtrato da un impercettibile strato di nebbia, gli orizzonti sfumati e tuttintorno una foresta che pare non concedere spazi. A tratti incontriamo piccole imbarcazioni: canoe spesso stracariche che in un rispettoso silenzio scorrono sullacqua tranquilla trasportando ortaggi, spesso banane, e vettovaglie. Il magico silenzio, quasi irreale, è interrotto dalle voci dei bambini che giocano e dai canti delle donne che lavano i panni nel fiume immerse fino alla vita nellacqua. Poi solo il fruscio dellacqua che scorre e quel "tuctuc" del nostro motore che sempre più spesso deve venir spento per proseguire a forza di pagaia. Otto ore, spesso sotto un sole molto forte, sono state necessarie per raggiungere una regione isolata dell'entroterra. L'ultimo tratto lo abbiamo percorso quasi tutto a piedi, immersi fino alle cosce nelle fresche acque del fiume. Il flusso d'acqua, malgrado l'incredibile abilità e sangue freddo di Rolin, non permetteva più né la navigazione a motore né quella a remi, cosicché è stato necessario spingere per alcuni tratti contro corrente il pesante barcone. Ripetutamente ci troviamo la strada sbarrata da giganteschi tronchi dalbero caduti nel letto del fiume, ostacoli che sormontiamo anche con un poco di fortuna. Un idillio nel bel mezzo della foresta La bellezza del villaggio raggiunto verso sera, col cielo già colorato di rosso, mi avrebbe però ricompensato di tutte le fatiche. Il luogo è semplicemente idilliaco, vi regna una gran pace ed ogni colpo d'occhio è un quadro che si fissa con entusiasmo nella mia mente. Vi è un senso di ordine, di serenità, di perfetta sintonia tra le persone e la natura. L'erba ben tagliata attorno alle casupole della comunità indios miskitos, abbellite da piante e fiori tropicali ben curati, le tranquille acque del fiume che scorrono poco sotto e sulle quali a tratti transitano solo le canoe degli indigeni. E' un idillio nel bel mezzo della foresta tropicale. Qui sono le piccole cose che segnano il passare del tempo e la presenza della vita. Una madre che gioca con la figlioletta nel fiume, un cacciatore che si riposa su di unamaca, un cane che rincorre un vitello, un magnifico uccello dagli intensi colori rosso e nero che mi spia dai rami di un albero di papaia e, quando cala la notte, lo strano ed intenso gracchiare delle rane e lo scoppiettio dei fuochi che vengono accesi. 7. Fino a quando i grilli cantano Donna Rutilia è una indios di sangue misto miskito-pech (i due gruppi etnici della
regione), i lineamenti indiani molto pronunciati, il naso appuntito in linea con la
fronte, grandi orecchie ed un'espressione dolcissima. Rutilia mi ha accolto quasi con
timidezza e ora mi ospita nella sua casa. In questo momento sta preparando la cena - come
sempre pasticcio di fagioli, uova strapazzate e banane fritte -, mentre io mi ritempro con
la fresca brezza che scende dalle montagne. Siedo su di un curioso seggiolino di legno,
con schienale inclinato e non più alto di trenta centimetri. Anche Rolin, il figlio di
Don Sixto che mi ha fatto da guida, col quale si è instaurata un'intesa piena di rispetto
e di fiducia reciproca, si riposa. Si è appena concesso, come me poco prima, un bel bagno
rinfrescante nelle tranquille acque del fiume che abbiamo risalito alcuni giorni or sono
fino a raggiungere questo sperduto luogo nel profondo della foresta tropicale. E compito del padre di Rutilia indicarmi i sentieri nella foresta e le principali
piste verso le altre comunità indios più vicine. Un arzillo settantenne,
dallaspetto debole e mal messo, ma dal passo regolare e sorprendentemente rapido.
Ben presto abbandono tutto il rispetto nei confronti della sua anzianità. Al più tardi
in ogni caso quando sono costretto a domandare la prima sosta di riposo a quel vecchietto
le cui forze parevano dovessero mancare da un momento allaltro, ma che però
continuava imperterrito su e giù per i sentieri, rendendomi attendo nella micidiale
calura della giornata ai diversi suoni della foresta ed ai canti degli uccelli. Mi è
parso quasi si sentisse in colpa per avermi fatto camminare troppo quando finalmente tutto
sudato mi sono seduto sotto di un albero nei pressi di un ruscello dalle acque molte
scarse. Nei giorni successivi, da solo, ho quindi iniziato a meglio conoscere la regione.
Ho percorso chilometri di marcia, fermandomi frequentemente a conversare - spesso a
fatica- con gli indios che incontravo. Cacciatori sulle piste nella foresta o coltivatori
nei campi. A volte attraversavo piccoli villaggi dove le giornate parevano trascorrere
tranquillamente sugli spiazzi sterrati davanti alle capanne, nelle amache o sugli scalini
che portano agli usci delle semplici case dove gli indios amano spesso sedersi. Ho
visitato così piccole comunità Miskitos e Pech, con case in legno o argilla, povere
abitazioni ma dove ho trovato molta simpatia e sincera accoglienza ed un caffè sempre
pronto per linatteso ospite. Nei miei spostamenti ho sempre mantenuto come
riferimento il letto del fiume, punto di orientamento che per me sarebbe stato fatale
perdere di vista. Sul fiume trascorre tutta la vita di questa gente, è la fonte di acqua
e di trasporto, il luogo dove si lavano i panni e dove ci si incontra.
> |