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Strade d'Africa: Nairobi - Zanzibar

racconto di viaggio a puntate che appare anche sulle pagine della rivista Illustrazione ticinese di Roberto S.

Se non avete ancora letto le puntate precedenti cliccate qui.

Introduzione
: Zanzibar, luogo di mistero, di magia, di sensualità, di profumi e gusti esotici. Qui si concluderà il viaggio lungo le strade d’Africa. Rimangono i ricordi degli incontri con i maasai, delle prime e forse inquietanti conoscenze di Nairobi, delle lunghe ore trascorse sugli scomodi matatu ed ora quelli delle ultime giornate vissute alla scoperta di quest’isola a cavallo tra Oriente e Continente africano.

5.Alì e le donne velate

Dietro il pesante ed imponente portone intarsiato ritrovo come sempre Ali, il ragazzo responsabile del ricevimento della piccola pensione nella quale soggiorno. Si rivolge a me in kiswahili - la lingua locale- e si attende conferme sui progressi da me fatti nella consueta lezione della sera precedente. "Naweza kusema kiswahili kidap", gli dico - parlo solo un poco di kiswahili- e lui pare accontentarsi. Già nel corso delle diverse settimane trascorse in Africa avevo avuto modo di assimilare molte parole della lingua locale ma era stato appunto l’incontro con Alì che mi aveva dato lo sprone finale. Cocciuto e perseverante si ostinava nel volermi introdurre di forza negli usi e costumi locali, raccontandomi, spiegandomi e facendomi appunto pagare il pedaggio delle lezioni linguistiche. Confesso che i progressi fatti in pochi giorni mi avevano riempito di un certo orgoglio, tanto che mi ero ritrovato a parlare in kiswahili da solo tra i locali di quella pensione dalle fattezze così orientali e tanto arabe che mal si associavano a quell’idioma tipicamente africano. Zanzibar mi stava così assorbendo, i suoi ritmi ed i suoi suoni mi riproponevano un mondo che pensavo appartenesse al passato, ma che nelle notti calde ed umide, nella misteriosa penombra dei vicoli pareva essere ancora vivo. Ed accadde proprio una sera che incrociai sulla via del ritorno al mio alloggio due ragazze dal viso velato e con sari nero. Al sorriso letto negli occhi segue un saluto amichevole, una voce familiare che riconosco in quella dell’assistente di Ali. Con mia grande sorpresa mi invitano a seguirle al parco dove ha luogo una festa locale e dove vi è la possibilità di gustare diverse specialità della cucina isolana. Nella normalità islamica di Zanzibar può quindi accadere anche di venire invitati da due ragazze velate ed in seguito di ritrovarsi in mezzo ad un gruppo di giovani, sdraiati sul prato del parco centrale che si affaccia sul mare, a parlare del proprio paese del quale si cominciava forse a dimenticare l’esistenza. Nell’oscurità tutto appare più sfumato, le fisionomie nascondono i veli, le ombre accomunano i colori della pelle, la notte stellata è la stessa da ogni luogo la si ammiri. Anche le varie pietanze che mi porgono e che assaggio con curiosità paiono essere in sintonia con l’ambiente, i loro aromi forti che invitano a riflettere su quale combinazione di spezie sia stata usata, si fondono con gli intensi profumi che il vento trasporta e diffonde ovunque.

Gusti e profumi della costa

Queste sensazioni, questi profumi mi seguiranno anche sulla costa orientale dell’isola di Zanzibar dove mi imbatto casualmente in un gruppo di giovani rasta i quali, vista la mia difficoltà nel trovare un alloggio nella località nella quale ero capitato, mi invitano in una loro piccola comunità. Parlare di comunità è forse esagerato, infatti si tratta di due piccole e spartane capanne dal tetto di foglie di palma nelle quali si ritrovano occasionalmente nel corso della giornata, per poi sparire quasi tutti la sera. Dove andassero non l’ho mai capito, ma per finire non mi dispiaceva ritrovarmi a pochi passi dal mare, perso in quel palmeto infinito, in sola compagnia di una cane magretto e decisamente bastardino che aveva reagito alle mie attenzioni con una fedeltà ed un’amicizia che aveva fatto di lui la mia ombra. La notte mi faceva la guardia davanti all’uscio, segnalando fedelmente ogni movimento, il giorno mi accompagnava nelle mie lunghe camminate o curava i miei abiti quando mi concedevo un bagno ristoratore in uno splendido mare turchese. Dal mio piccolo ma privilegiato osservatorio, costituito dalla veranda della capanna, osservo la vita delle persone del luogo scorrere come in una pellicola dai magici colori. Tra le palme, sulle strette piste lungo il mare, intravedo le donne con carichi di legna sulla testa, giovani in bicicletta che tornano dal lavoro nei campi, il lento andirivieni verso il pozzo con bottiglie ed anfore. Spio anche il vecchio pescatore che si allontana ogni mattino con la sua piccola canoa, nella quale depone una grande cesta di corde di fibra naturale intrecciate: un ricordo di anni nei quali il mare era forse più generoso. Oggi la pesca risulterà meno misera del solito: tre bei pesci che costituiranno il pasto della sera. Come sempre la cena è in comune, con un unico piatto dal quale ognuno attinge con le mani il suo cibo: una manciata di riso con patate, verdure e le solite spezie per una salsa fortemente aromatica. Il tutto cucinato a turno sul fuoco da uno dei miei nuovi amici in casseruole informi ed annerite. Tutti paiono essere molto abili nell’arte culinaria. Unico punto di disaccordo era costituito dal pancake del mattino, che si ostinavano ad arricchire abbondantemente con cipolle, mentre il sottoscritto si permetteva di modificarne il gusto con l’aggiunta di un poco di zucchero. Una differenza di palato che costituiva ogni sera motivo di discussione ed ilarità, ma che in fondo era un modo come un altro per parlare di noi, delle nostre abitudini, dei nostri paesi, mentre il fioco lume della vecchia lampada a petrolio andava spegnendosi.

Uno strano rituale sulla spiaggia

L’ultimo mattino per me, l’ultimo sole appare all’orizzonte sul "mio" mare della costa est di Zanzibar. In quella luce violenta che si riflette sulla sabbia fine e bianchissima ritrovo due dei miei amici cimentarsi in strane mimiche sportive sulla spiaggia. Era la prima volta da quando ero giunto in quello strano luogo che li sorprendevo in questo gesto: un allenamento fisico che passa dalle classiche flessioni per braccia ed addominali a passi di danza, fino ad atteggiamenti che ricordano movimenti della scuola dello yoga. Sono abbigliati di bianco e per loro ciò sembra essere un momento rituale, nel quale in sintonia col vento e con le onde del mare paiono vivere un momento di "trance", mentre le treccine dell’acconciatura rasta si aprono col movimento quasi a voler formare una disordinata corona. Nel frattempo, poco lontano, approfittando della bassa marea uno strano personaggio scava profondamente nella sabbia umida aiutandosi con un lungo bastone. Vi estrae un poco di tutto, dai vermi a piccoli molluschi che si illudevano di aver trovato un rifugio sicuro nell’attesa che i flussi ritornassero a ricoprire la costa. Vivo con circospezione e rispetto quelle immagini, senza disturbare li osservo rendendomi perfettamente conto che sono l’ultimo saluto, gli ultimi ricordi che mi vengono concessi. Al tramonto faccio ritorno al porto di Zanzibar, con un poco di tristezza incontro per l’ultima volta visi divenuti familiari, mentre la luce sfugge trasformando le persone che mi stanno vicine in ombre e quindi in sagome scure e, per finire, mi ritrovo nel nulla di una notte ancora senza luna, col solo vento che sale dal mare e la magia di quel momento che non vorrei finisca mai. Fine.

Strade d'Africa: Nairobi - Zanzibar

C’è un’Africa meno nota, quella non riprodotta sui depliants delle agenzie di viaggio e nemmeno quella, affamata e guerriera, delle cronache inquietanti dei telegiornali. Esiste un paese che pulsa di vita comune, nelle grandi città ma pure nelle savane, un’Africa di africani come tanti, con maasai ma pure simpatici tassisti e tanti personaggi sorprendenti che ho voluto conoscere e scoprire con questo viaggio sulle strade tra Nairobi e Zanzibar ...

1. Nairobi, Kenya: pole pole

Kihagi è il nome del tassista che nella notte percorre le strade poco sicure dei sobborghi di Nairobi e che la fortuna ha voluto incontrassi ancora in servizio all’aeroporto. E’ toccato a quel suo sorriso accattivante e a quel suo sguardo gentile darmi il benvenuto sul suolo africano. Nel buio corre via sicuro con la sua auto un poco sgangherata. Mentre percorriamo nel silenzio e nell’anonimato i primi quartieri della grande metropoli del Kenya l’aria è umida ma il caldo ancora sopportabile. Esitante, quasi temesse di importunare, Kihagi mi da a bassa voce i primi consigli: mi mette in guardia sui pericoli dei quartieri di centro città. Infatti non mi sta conducendo in uno dei tanti grandi alberghi per uomini d’affari e turisti, bensì in una piccola pensione, perché gli ho chiesto di voler conoscere l’Africa vera, la sua Africa, quella delle persone come lui, che in mezzo alla notte ancora lavorano per pochi soldi per mantenere una famiglia numerosa. Kihagi ne è felice e forse un poco orgoglioso. Si accomiata da me davanti al bancone della reception della pensione, con un gesto di saluto sparisce nella notte lasciandomi come ricordo solo l’intenso odore di sudore della sua camicia sgualcita.

L’alloggio che mi mostra il solerte inserviente è spartano ma pulito, le finestre con inferiate e sul pianerottolo incontro pure due cordiali addetti alla sicurezza. Col sole del giorno seguente ritrovo i tipici colori, i ritmi ed i profumi dell’Africa. Le vie deserte e quasi lugubri della notte si sono riempite di abiti sgargianti, di bus rumorosi, di frutta fresca venduta su bancarelle, di musica locale proveniente dalle tante cassette pirata vendute ad ogni angolo. Dalla vetrata del ristorante ammiro con curiosità quel mondo così diverso nel quale non ho fretta di tuffarmi, la prima lezione che mi ha dato infatti il tassista nella notte è il "pole pole", cioè piano, senza correre, perché qui il tempo ha un altro valore. Tutto in effetti pare avere una dimensione diversa.

Stanco di uccidere

"Anche di uccidere ci si può stancare!" mi dice un inquietante cliente del mio medesimo albergo. E’ in vacanza ora, il suo mestiere è quello di soldato e combatte in una delle tante guerre fratricide africane. Il suo paese è piccolo - tralascio di proposito ogni riferimento esatto - ma vi vivono persone a sufficienza perché una guerra possa durare per anni. Il mio nuovo "amico" sembra avere una gran voglia di raccontare, di dirmi quanto sia brutto il suo mestiere, di come questa pausa sia per lui importante. Parla bene l’inglese, con un accento americano, infatti mi dice di aver trascorso molti anni negli Stati Uniti, dove è stato preparato al combattimento ed alle tattiche di guerra, tutto in segreto naturalmente, perché ufficialmente l’America non è coinvolta. Laggiù ha però lasciato moglie e figli, al sicuro, in modo che lui possa "lavorare" senza troppe preoccupazioni. Anche questa è l’Africa, non solo le belle spiagge ed i leoni delle riserve, un continente dove la vita forse ha meno valore ma dove appunto per questo la si impara ad apprezzare. Ancora oggi confesso di non essere riuscito a capire come in un luogo dove si incontrano tanti sorrisi, tanta dolcezza e tanta disponibilità possano accadere delle atrocità e dei drammi tanto immani. A Nairobi mi è così quasi parso normale il trascorrere ore a discutere con una persona che forse si era macchiata di efferati delitti, non fosse altro per cercare di capire o forse perché girando nelle vie di Nairobi con lui mi sentivo più sicuro.

Ora fuggo però da tutto ciò, lascio una Nairobi anonima, rumorosa, assillante nei suoi venditori di safari e nei suoi accattoni, nella quale ad un tavolino di una pizzeria può capitare d’incontrare un gay che ti racconta di essere appena stato abbandonato dall’amico, oppure un rifugiato sudanese che ti si propone per qualsiasi lavoro tu gli chieda, non vuole infatti dei regali, lui non è un accattone.

L’Africa dei Maasai

Il bus locale è semivuoto, forse perché è domenica. Dai finestrini opachi scopro l’Africa delle savane, pianure aride di terra rossastra e con cespugli pungenti, desolate, senza fine e con nuvole basse e scure all’orizzonte. E’ la terra dei maasai. Uomini che compaiono a tratti quasi dal nulla, avvolti in quel loro abito rosso porporeo, alti e scarni con l’immancabile lancia, in mano una sacca e pochi attrezzi da lavoro. Anche i loro villaggi sembrano appartenere a quella terra sulla quale giacciono, le case a cerchio paiono da lontano tanti cespugli e la presenza umana viene solo tradita dalle mandrie al pascolo nelle vicinanze. L’interno delle capanne è scuro, le pareti ed il soffitto sono annerite dal fumo ed alcuni assi rialzati dal terreno fungono da giaciglio per la notte e da mensole per le poche vettovaglie di giorno. Al centro il fuoco, delimitato da poche pietre d’argilla ed il palo portante della struttura. I maasai sono persone che hanno un fascino ai miei occhi tutto particolare, mi emoziona avvicinarle nel corso delle soste del bus. Non li vedo sudici, bensì ricoperti di terra e degli odori delle loro bestie, sdraiati sul nudo suolo dormono o attendono anche loro un mezzo di trasporto. La terra è il loro giaciglio e questa simbiosi totale con l’ambiente mi affascina. Mi osservano con distacco perché io sono loro ospite e lo spirito guerriero è solo dentro di loro, ma con il giavellotto non incutono terrore, bensì rispetto. Loro non sono quelli che incontrano i turisti nei parchi nazionali, ma coloro che in quelle savane ci vivono da sempre, perché è la loro terra, poco importa se altri la chiamano Kenya o Tanzania. Ma sarà appunto la Tanzania, che raggiungo con un lungo viaggio che mi avvicinerà ancora di più ai maasai.

2. Arusha, Tanzania: l’incontro

Le strade paiono operose, ma nel medesimo tempo tranquille, la gente del luogo le riempie di primo mattino, vi espone sui marciapiedi o su rudimentali calessi ortaggi e frutti freschi, tessuti ed oggetti da lavoro. Sullo sfondo vigila il cono del monte Meru, 4556 metri. Ad Arushia non è difficile arrivarci. Anche se la località è piccola vi è un aeroporto e vi giungono molti safari organizzati a Nairobi se non addirittura a Dar el Salaam. Da qui infatti si raggiungono molti splendidi parchi nazionali e non sorprende quindi che in questo luogo tutto ruoti attorno ai safari. Un poco sorprese sono invece le persone locali che incontro ed alle quali dico che io sono solo di passaggio e che sto percorrendo la tratta da Nairobi a Dar el Salaam per meglio conoscere l’Africa della gente ... per gli animali avrò tempo in un altro momento. Ma nella regione mi fermerò comunque più a lungo del previsto. Non solo perché mi lascerò tentare anch’io da un mini safari che si trasformerà in un’avventura dai risvolti sorprendenti e tutt’altro che rilassanti, ma pure perché incontro Robert, un giovane africano di corrente "rasta" - quelli insomma tutto treccine e reggie - sveglio, con occhiali da sole a specchio e che sa tutto di tutti, ma al quale ancora nessuno aveva sino ad oggi chiesto come vivono i maasai della regione, nei loro poveri villaggi discosti e persi nella savana, che però vedono sulle loro teste gli aviogetti che trasportano i turisti alla ricerca dell’emozione della foto al leone.

Una maasai di nome Fiume

"Fiume" è uno dei nomi più belli che abbia conosciuto, non so spiegare esattamente il perché, ma lo trovo così pieno di significati. Così infatti suona la traduzione italiana del nome di una ragazza maasai che ho incontrato ad alcune ore di cammino da Arusha. Lavorava in un campo, piegata su se stessa ed intenta con una rudimentale zappa a dissestare un arido terreno. Un sorriso le illumina il viso, la sua testa è rapata, l’abito rosso, le orecchie bucate ed inanellate. Le offro un mango che avevo portato quale scorta e che lei apprezza molto. Scambia qualche parola col mio accompagnatore, Robert, il giovane che avevo incontrato in città e col quale mi ero incamminato alla scoperta dei villaggi della regione. Fiume ci fa cenno di seguirla e mi fa capire di voler portare il mio sacco, io esito ma poi devo arrendermi. Nella cultura maasai - almeno così mi dicono - sono le donne che portano i pesi. La strada è però ancora lunga, il sentiero diviene sabbioso, una sabbia finissima che penetra nei vestiti e che rende l’incedere difficoltoso, ma Fiume sempre sorridente e così minuta non si arresta e ci fa cenno che oltre la collina vi è il suo villaggio: poche capanne di forma circolare, il tetto in paglia e circondate da una staccionata di pali conficcati profondamente nel terreno. Inizia così un poco per caso uno dei momenti più belli del mio soggiorno africano. Quei maasai che mi parevano così lontani mi invitano ora nelle loro case, mi mostrano le loro poche cose, mi danno da mangiare e sono felici di sapere la mia storia. Gli inviti si susseguono, rigorosamente suddivisi in gruppi maschili o femminili coi quali col tempo prendo sempre più confidenza. Sino a quando spuntano addirittura le prime foglie di marijuana, che coltivano in segreto. Forse l’unico tradimento alla loro cultura, ma la vendita delle quali contribuisce a migliorare la loro situazione. Malgrado l’ospitalità decido di non abusare, da un lato mi affascina terribilmente l’idea di fermare tutto e restare settimane con questa gente, dall’altro vedo pure i pericoli della mia presenza, della mia ricchezza che si scontra con la loro povertà - non fosse altro perché ho uno zaino, delle scarpe e dei jeans -. Malgrado ciò i loro sorrisi, i loro sinceri saluti mi hanno accompagnati per un lungo tratto quando ho deciso di riprendere il mio cammino verso la costa e Dar el Salaam, cosciente di aver lasciato uno dei luoghi ed una delle esperienze più straordinarie del mio viaggio africano.

La tentazione di nome "safari"

Come giustificare il tradimento del mio intento di voler conoscere solo l’Africa vera delle persone e delle culture di tutti i giorni, attraversando con precari mezzi locali una parte del continente, con la decisione di fermarmi in un parco nazionale per un safari? Se fossi un ipocrita direi che la riserva di Arusha si trova proprio sulla strada che dovevo percorrere per raggiungere la costa orientale, ma per sincerità preferisco dire che mi è preso un forte e sconvolgente desiderio di vedere giraffe ed elefanti da vicino, in completa libertà in un ambiente magico ... come ne avrei avuta conferma in seguito. Ma la storia che narro non è quella del classico safari. Si da infatti il caso che i giorni che mi avevano permesso di avvicinarmi alla cultura maasai mi avevano forse fatto dimenticare i saggi consigli di Kihagi, il tassista di Nairobi che mi metteva in guardia nei confronti di persone opportuniste e smaliziate che qui si possono incontrare. David della società Prince Kili non mi convince molto - il sesto senso da vecchio viaggiatore! - ma mi offre un safari con jeep privata per tre giorni, tenda e pasti compresi ad un prezzo quasi irrisorio. Non mi fido molto, ancora di meno quando il veicolo non giunge all’ora concordata bensì con tre ore di ritardo e che invece di essere molto comodo è un ammasso di ferraglia indegno della bellezza di una riserva come quella di Arusha. Tantè che mi viene garantito che per il giorno seguente il mezzo di trasporto sarebbe stato sostituito. Mi rassegno quindi a trascorrere la prima giornata di safari sul quel veicolo decisamente preoccupante, specialmente pensando che nelle savane si avvicinano anche animali dal comportamento non sempre prevedibile. La riserva si rivela essere di una bellezza suggestiva, la ricchezza di animali è affascinante, giraffe, elefanti, ippopotami, bufali, gazzelle e poi la magia del grande Lago Mandela, composto da diversi specchi d’acqua dalle tonalità differenti, nei quali al calare del sole si ritrovano migliaia di flamingo rosa. Il sonno nella tenda in mezzo alla natura è suggestivo, un poco meno purtroppo il risveglio e l’attesa per il veicolo che sembra essere sparito.

3. Arusha National Park: gioia e paura

Un sordo rumore di motore in lontananza risveglia le mie speranze. Da ore infatti attendo con un accompagnatore un fantomatico nuovo veicolo per proseguire il safari nella riserva. I ricordi del giorno precedente sono ancora freschi così come le emozioni provate alla vista degli splendidi paesaggi e per il contatto ravvicinato con animali al pascolo liberi e selvaggi e questo non fa che rendere l’attesa ancora più spasmodica. Grande è la sorpresa quando vedo il veicolo: un fuoristrada gigantesco, i sedili foderati di velluto rosso, bene imbottiti e quasi lussuosi, pare incredibile che tutto ciò sia per me solo. Ma è realtà e lo sarà per tutta la giornata, fino a quando monterò nuovamente la mia tenda ... tutto solo. Capita infatti che verso sera venga depositato ai margini della riserva, non molto lontano da un lodge del quale vedo le luci. Mi viene detto che il veicolo dovrà venire nuovamente cambiato e che posso attendere li fino al giorno seguente. In quel luogo non paiono infatti esserci pericoli in quanto sono appunto ai margini della riserva. Ed è vero tutto ciò, non fosse per il fatto che io lo so che sono al di fuori della riserva, loro anche, ma gli animali sono proprio bene in chiaro di dove sia il confine?

Decido quindi, dopo essere stato malgrado le mie rimostranze praticamente abbandonato, di avvicinarmi per lo meno al lodge e di allestire la mia piccola tenda nei pressi di un grande albero che mi da con le sue ampie fronde un poco di sicurezza. Ben presto ricevo la visita di un inserviente del lodge al quale racconto la mia strana storia che lo meraviglia e lo insospettisce non poco, mi conferma però anche lui che nel luogo dove ho messo la mia tenda non vi sono pericoli e che gli animali sono lontani. Sono forse un credulone, ma gli concedo la buona fede. Ricevo pure dell’acqua calda: il risultato di un semplice quanto efficiente forno a legna nel ventre del quale viene scaldata l’acqua del pozzo.

L’elefante ha divelto la staccionata!

Piove nella notte e ciò contribuisce a darmi una sensazione, rintanato come sono nella mia piccola tenda, in se stupenda, di totale isolamento, di simbiosi magica con la natura. Le sorprese giungono al risveglio, infatti come apro la cerniera della tenda e vengo abbagliato dalla penetrante e chiara luce del mattino non credo ai miei occhi: una giraffa sta tranquillamente facendo colazione con le foglie del "mio" albero e solo poche decine di metri più lontano un elefante se ne sta li a pacificamente dondolare la sua proboscide. Mi verrà detto in seguito che aveva pure divelto una staccionata del lodge. Per fortuna che gli animali non dovevano mai uscire dai confini della riserva ...

Nel corso della giornata mi ritrovo a meditare su di un sasso "panoramico", un magnifico monolito di parecchi metri sul quale mi sono arrampicato e che si erge non lontano dalla riserva, ma come detto il concetto di confine mi appare sempre più vago e quindi sono contento di essere un poco più in alto, qui bufali ed elefanti non ci possono arrivare, tuttalpiù potrebbe arrampicarvisi un qualche leone, ma quelli non dovrebbero proprio esserci ... e questo credo sia proprio vero. Assaporo così dall’alto i paesaggi, scorgendo occasionalmente in lontananza animali al pascolo: giraffe, elefanti e bufali, questi ultimi sono decisamente gli ospiti più pericolosi a causa delle loro imprevedibili reazioni. Penso sul fatto che nessun veicolo si sia più fatto vivo e che quindi in pratica sia stato effettivamente abbandonato in questa riserva della quale, malgrado le disavventure, o forse anche proprio per quelle, mi sono in un certo senso innamorato. Ed ora ne sono contento, ho infatti ancora delle provviste, ho la tenda e gli utensili e posso decidere io fino a quando rimanere. La compagnia non manca nemmeno quella e varia dai vari inservienti del lodge che mi hanno un poco adottato, alle solite noiose scimmie, ad occasionali giovani pastori, con tipiche calzature ricavate da vecchi copertoni d’automobile, che mi invitano a mangiare del mais fritto sul fuoco.

Il viaggio prosegue in matatu

Dopo una serena notte di luna piena il furgoncino che regolarmente rifornisce il lodge mi offre l’opportunità, non senza un poco di tristezza, di lasciare questo splendido luogo e di riprendere finalmente il cammino. Ritrovo così il mio ritmo di viaggio e l’Africa "vera" che cercavo. E’ Africa che s’incontra sui vecchi e precari matatu - un mezzo di trasporto tra il furgone e la jeep con dure panchine e sempre strapieno ... altrimenti non parte -. Sono i matatu che collegano le zone più discoste e che costituiscono la vera ossatura del sistema di trasporto locale, mentre i bus vengono utilizzati solo su lunghe tratte e sulle strade principali. Quest’ultimi corrono a velocità folle, incuranti di animali e genti e non rallentano nemmeno in prossimità dei villaggi. Accade così di trovare un selciato ricoperto di stracci su varie decine di metri: il gesto di pietose mani africane per ricoprire i poveri resti di una persona investita e smembrata brutalmente dall’urto. Un momento di sconforto m’invade e nuovamente l’Africa mi ripropone i suoi valori così diversi. Il viaggio verso est prosegue attraversando poveri villaggi dalle case di terra rossa, piantagioni di sisal, mais e con l’avvicinarsi della costa immensi palmeti e foreste verdeggianti. Ai bordi della strada si possono incontrare curiose scimmie, lucertoloni colorati ma pure inquietanti serpenti. Poi ancora savana e rari baobab, che si alternano a capannelli di persone che pazientemente attendono un mezzo di trasporto. Ad ogni arresto è una ressa immane, una lotta per accaparrarsi un posto che però mai trascende ed avviene sempre nel rispetto reciproco. Una testa mi tocca le ginocchia e con sconcerto mi accorgo che si tratta di un invalido, le gambe mozzate all’altezza delle cosce, sotto le quali è stato fissato un rudimentale asse, così come dei legni sono legati alle mani, il suo unico mezzo di propulsione. E’ riuscito anche lui a trovare uno spiraglio in quel angusto veicolo e lo aiuto a sedersi sollevandolo quasi di peso. Provo una grande pietà, ma il suo sguardo mi mette a mio agio, mi sorride e nelle ore successive di viaggio tenteremo di instaurare un impossibile dialogo fatto di molti gesti e poche parole.

4. Dai Monti Usumbara ...

Sul percorso che porta dal centro della Tanzania fino alle coste dell’Oceano indiano si costeggiano i monti Usumbara, un rilievo montagnoso all’apparenza di poco interesse e che divide in pratica la Tanzania dal Kenya. Decido di farvi tappa e con il consueto matatu risalgo una strada tortuosa che termina al capoluogo Lushoto, un villaggio di case d’argilla spesso internamente annerite dal fumo e dal carbone utilizzato per riscaldarle. Il tempo è infatti cupo e l’altezza fa in modo che la temperatura sia scesa bruscamente rispetto alla Rift valley ed alle sue savane che si possono ammirare a strapiombo dai punti più alti della vallata: uno spettacolo veramente mozzafiato! Con i caldi raggi di sole che occasionalmente bucano le basse e scure nuvole, la vegetazione improvvisamente risplende, il verde si fa vivo ed il capoluogo con le sue molte casupole di terra rossa ed i tetti in lamiera sembra rivivere. Sono i momenti ideali per delle camminate che fatalmente portano a perdersi tra stradine e sentieri sui quali è facile imbattersi in allevatori con piccole mandrie o in donne dagli abiti sgargianti sulla via del mercato.

La sera il conto al modesto ristorantino che mi rifocilla mi viene portato su di un piattino di metallo: un pezzettino di carta con scritto l’importo da pagare, strappato sempre dal medesimo foglio che probabilmente, vista la bassa frequenza della clientela, durerà ancora per molti giorni. E’ il desiderio di dare un certo prestigio al servizio, anche se la gentilezza e la calorosa accoglienza che mi viene riservata ogni giorno vale più di ogni tentativo di imitazione di maniere anglosassoni riminiscenze del passato. Le giornate si concludono come sempre alla ricerca di un secchio di brace e di alcuni ceppi di legno che possano rinvigorire il fuoco del mio modesto alloggio, sull’uscio del quale indugio spesso ad assaporare gli odori dei campi ed i suoni che provengono dalla foresta vicina, poco oltre il tranquillo fiume nella vallata.

... a Tanga e Dar el Salaam

A Tanga, sulla costa, l’ambiente è molto diverso. Si respira un poco di mondanità in una cittadina dal passato certamente più illustre del presente, come lasciano immaginare oggi i monumenti dei tempi coloniali e le strutture architettoniche delle case ricche di arcate e suggestive balconate. Sul mare si può assistere ad un intenso andirivieni di navi verso un porto che però ha sicuramente perso molto del suo splendore. Il tempo trascorre un poco annoiato nella città portuale non lontano dal confine col Kenya, tra la sonnolenza che vi si respira nelle calde vie il giorno e le rare animazioni ed attività serali. Le giornate si concludono spesso nei bar locali che offrono l’opportunità di interessanti incontri, giocando alle freccette, bevendo uno dei a dir la verità poco digeribili liquori locali, oppure ancora lasciandosi prendere dai ritmi dell’onnipresente musica africana, il soukous, il wengue che accompagnano spesso balli dalle connotazione fortemente erotiche. Anche il mio alloggio è ora decisamente più dignitoso ed addirittura vi è l’acqua calda! E’ però una gioia di breve durata quella della doccia, in quanto ciò che mi è stato promesso dal portiere è effettivamente vero, da quel tubo un poco informe fissato al muro scende proprio acqua calda, ma solo calda! Questo significa che dopo pochi secondi di apertura del rubinetto non risulta più praticamente possibile fare una doccia a meno che non ci si voglia ustionare ... manca infatti totalmente l’acqua fredda!

Non migliora di molto nemmeno la situazione nella capitale Dar el Salaam, che raggiungo dopo un un lungo viaggio attraverso un’Africa genuina. Il nuovo alloggio ha il vantaggio di essere poco lontano dal porto dove mi imbarcherò sul traghetto in direzione di Zanzibar e lo svantaggio della vicinanza alla moschea. Ciò significa che il muezzin mi grida cinque volte al giorno quanto Allah sia grande, la prima volta alle cinque del mattino! Ma se il primo impatto con l’Islam è un poco brusco tutto cambierà a Zanzibar.

Finalmente Zanzibar
!

Quando il sole cala ed il cielo s’infuoca la terrazza dell’Africa House Hotel diviene il punto di ritrovo dei viaggiatori che vi giungono puntualmente al tramonto per scambiare impressioni, esperienze e consigli. Un luogo di mondanità locale ai margini di una Zanzibar che cela però ancora tutto il suo mistero. E’ infatti sufficiente perdersi nel labirinto costituito dalle sue strette, decadenti e suggestive viuzze, per scoprire ad ogni angolo immagini che paiono aver resistito per secoli senza che il passare degli anni abbia saputo modificarle. Bazar con ogni genere di spezie dagli odori intensissimi, donne velate che attraversano sfuggenti le corti, uomini che ti spiano dalle finestre, occhi scuri che ti studiano senza lasciar trasparire alcuna emozione. Voci che rimbalzano da un uscio all’altro, grida di bambini ed abbaiare di cani: suoni che si confondono, misteriosi, tanto che ora il richiamo alla preghiera del muezzin mi appare ancora come il suono più familiare. Qui sì che l’islam pare vivere interamente il suo fascino, anche se la sonnolenta, ma al tempo stessa laboriosa vita della cittadina sembra sfuggire pure ai ritmi dettati dalla religione. Accade così che pure le parole del muezzin paiono perdersi nel vento e che pochi o nessuno danno l’impressione di volersi rivolgere a loro volta ad Allah. Ci vuole uno dei consueti brevi ma violenti acquazzoni tropicali per smuovere dal torpore queste vie. In un attimo ci si ritrova così quasi soli, con le spalle appiccicate ad un muro, cercando riparo sotto una balconata che ancora ha preservato i suoi lussuosi intarsi, le sue arcate in stile orientale e che col rumore incessante delle gocce d’acqua ti invita a sognare, a ripercorrere una storia millenaria a cavallo tra oriente, occidente ed Africa nera.

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